Trecento anni di storia dell’Educatorio della Provvidenza

Dalla filantropia settecentesca alla inclusione
sociale dei nostri giorni

ROBERTO CARDACI

SOCIOLOGO
SAA SCHOOL OF MANAGEMENT
UNIVERSITÀ DI TORINO

La Fondazione Educatorio della Provvidenza: radici nel passato e sguardo al futuro

Non capita sovente di celebrare i trecento anni di vita di un qualsiasi ente, come avviene oggi nel caso di una delle Istituzioni benefiche più antiche di Torino: l’Educatorio della Provvidenza, che, nel corso della sua storia plurisecolare, attraversando in diversi periodi i contesti economici, politici e sociali in cui ha operato, è stato capace di garantire una continuità delle sue azioni a favore delle ragazze e delle donne prima, e attualmente dei soggetti più fragili del contesto economico e sociale. Ciò è avvenuto utilizzando in modo sapiente e oculato le risorse che la scelta filantropica dei molti benefattori che lo hanno sostenuto nel corso del tempo ha elargito per far sì che l’Ente potesse continuare a esistere.

Analizzandone le modalità di intervento, si può rilevare che l’azione dell’Educatorio si è sviluppata secondo un paradigma generale di intervento che si basava su tre capisaldi che si sono evoluti nel corso degli anni: l’attenzione a soggetti deboli dei contesti sociali in cui operava, la filantropia come sostegno economico, ma non solo, per realizzare le proprie iniziative a favore di chi si prendeva cura e la capacità di dare vita a interventi che, interpretando le trasformazioni avvenute nel tempo, concretizzassero progetti e interventi che rispondessero in modo adeguato ed efficace ai bisogni delle persone – dapprima principalmente ragazze in condizione di disagio sociale, ma poi, nella nostra epoca contemporanea, anche di altri tipi di soggetti – di cui si è preso e si prende cura.

Oggi, la celebrazione dei trecento anni di vita, costituisce una occasione per riflettere sul passato e considerare, tenendo conto di come sono solide le radici di quella che oggi è diventata, nell’evolversi delle legislazioni che hanno definito la sorte attuale degli enti benefici succedutisi nel corso della storia italiana, una Fondazione, per proiettare nel futuro le attività che attualmente l’Educatorio sta conducendo. La storia sociale dell’Educatorio della Provvidenza dalle origini ai giorni nostri che si presenta in questa sede, che per forza di cose e per amore di brevità non può che evidenziare gli eventi più salienti che ne hanno costituito la evoluzione nelle diverse epoche storiche attraversate, vuole mettere in evidenza i tratti fondamentali dell’agire paradigmatico di tutte le donne e gli uomini che hanno gestito le attività nel corso dei secoli, e che oggi continuano nella loro opera, a favore di altre donne e uomini meno fortunati perché oggetto di situazioni che li hanno costretti a vivere condizioni di disagio economico, umano, sociale e psicologico.

Un contributo per guardare, partendo dal passato e considerando il presente, quale potrà essere il futuro, si auspica, per i prossimi trecento anni.

Le origini dell’Educatorio e il contesto torinese in cui nacque

Riguardo al contesto economico, politico, sociale in cui la storia dell’Educatorio ha inizio, occorre considerare la situazione del Regno di Savoia al principio del XVIII Secolo.

L’Educatorio nacque in un Regno il cui sovrano, Vittorio Amedeo II, fresco di nomina regale poiché nel 1713, con la Pace di Utrecht che concluse la Guerra di Successione spagnola, aveva ricevuto in premio il Regno di Sicilia avendo partecipato alla sconfitta della Francia1, poneva le basi per il controllo economico e amministrativo dello Stato.

Di fronte alla necessità di consolidare il regno e per fargli assumere un ruolo più dinamico e incisivo nello scenario politico e militare del contesto economico-politico italiano ed europeo, Vittorio Amedeo II mise subito mano alle riforme, occupandosi in particolare della riorganizzazione del sistema burocratico, così da poter controllare l’andamento della vita economica e politica dello Stato.

Quando nel 1717 la riforma fu compiuta, suddividendo l’apparato burocratico in dipartimenti con competenze ben distinte, si ridefinirono i rapporti tra la corona e la città di Torino, con la subordinazione del capoluogo alle direttive del Re e dei Ministri, comunicate al Consiglio Comunale che aveva solo il compito esecutivo di metterle in pratica.

Di fatto si trattava di una rivoluzione che modificava profondamente la composizione sociale del ceto politico torinese, in quanto il Re, per garantirsi il potere assoluto nella gestione politica e amministrativa del regno – e quindi del suo cuore pulsante, la città di Torino – con una accorta sostituzione dei dirigenti comunali aveva trasformato il Consiglio, esautorando i rappresentanti della élite cittadina e sostituendoli con nobili feudali e burocrati di Stato fedeli al Monarca e alla sua corte.

L’altro settore nel quale Vittorio Amedeo II volle mettere ordine fu quello economico, con riforme finalizzate, oltre, anche in questo caso, al controllo dell’andamento dell’economia del regno, anche a sviluppare i settori che potevano garantire lo sviluppo economico di uno Stato che vedeva le sue finanze pesantemente depauperate dalle spese belliche2.

Pertanto, Vittorio Amedeo II riordinò l’organizzazione fiscale potenziando l’apparato organizzativo e imponendo un’imposta generale su tutti i redditi, abolendo anche gran parte dei privilegi fiscali dei ceti più agiati e quelli sul territorio regionale.

L’attenzione riformista del sovrano fu rivolta anche ai settori civile e penale della giustizia, smantellando le giurisdizioni non statali, e accentrando gli uffici e riordinando le magistrature, collocando a tutti i livelli dell’apparato giudiziario addetti che dovevano possedere competenze specifiche.

Successivamente, con la promulgazione delle due Costituzioni del 1723 e del 1729, in cui introduceva alcune modifiche rispetto alla precedente, Vittorio Amedeo II conferì allo Stato e ai suoi sudditi un corpo di leggi ordinato e non contraddittorio, rendendo più spedito ed efficace l’andamento della giustizia e del potere, senza tuttavia stravolgere né il diritto, né la concezione di giustizia peculiari e caratteristiche dell’ancien régime, che garantivano il potere assoluto e la perpetuazione del sistema economico e sociale dei regnanti.
Riguardo all’economia, il Re scelse una politica mercantilistica, adottando provvedimenti protezionisti come l’abolizione dei dazi interni e una pesante tassazione sull’esportazione di seta greggia, prodotta dal fiorente settore tessile, incentivando la produzione interna. Al contempo, riorganizzò il mercato del lavoro potenziando arti e corporazioni di mestiere.

L’economia dell’epoca nel regno, pur prevalendo l’agricoltura sul territorio regionale, era presente in modo strutturato soprattutto in Torino, ove vivevano oltre 30.000 abitanti, e aveva come fulcro il settore tessile, che con filatura, tessitura e tintura di cotone, seta, lana e la preparazione e confezione di merletti e pizzi in gran voga nell’abbigliamento di quel periodo, rappresentava una vera e propria eccellenza, dati i legami che intercorrevano con la città di Lione, collegata al capoluogo piemontese da una sorta di Via della Seta.
Mestieri meno rinomati erano quelli del settore manifatturiero, che impiegava operai in piccole imprese attive nella metallurgia dell’epoca, e altri operai in quelli della conciatura, produzione di cordame di vario tipo e nell’indotto del tessile, che occupava in particolare follatori3 e filatori.

Altre occupazioni erano quelle dei facchini, dei sarti, calzolai, addetti al settore alimentare. La popolazione della città di Torino anagraficamente era costituita, in base al censimento effettuato nel 1705, per oltre il 60%, da giovani, di cui il 10% donne, la cui età era al di sotto dei trent’anni, che davano vita a nuclei famigliari composti da uno o due figli4.

La stratificazione sociale della Torino settecentesca vedeva nella parte più elevata della scala sociale i nobili, che costituivano con il 3,5% l’aristocrazia. Altri esponenti di un ceto medio-alto erano gli imprenditori, da annoverare principalmente nelle categorie dei banchieri e dei mercanti che operavano nella esportazione e importazione, o svolgevano la loro attività nel settore tessile o in quello finanziario. A livello inferiore del ceto medio si collocavano funzionari statali, medici, giuristi e altri professionisti.

Nei gradini più bassi della scala sociale si trovavano, oltre ai già citati operai, facchini, sarti, calzolai, addetti al settore alimentare, servitori domestici.

Proprio tra i cittadini posizionati sui gradini più bassi nella stratificazione sociale si ritrovano i soggetti sociali ai quali l’Educatorio della Provvidenza, fin dalle sue origini, rivolse l’attenzione: i poveri, e in particolare le ragazze che furono ospitate per prime e continuarono a essere i soggetti di genere privilegiato, al quale, fino ai nostri giorni, l’Ente dedicò e dedica una attenzione specifica.

La povertà presente in Piemonte e a Torino in particolare è un fenomeno che origina in tutto il continente europeo fin dal XII Secolo, causato dalla lenta pauperizzazione delle campagne, dovuta alle carestie che le colpivano molto frequentemente causando l’allontanamento dai feudi dei servi della gleba e dei mezzadri che non potevano più essere mantenuti dai feudatari a fronte della scarsezza delle risorse necessarie al loro sostentamento e alla loro sopravvivenza.

Masse sempre più numerose di poveri, che non si davano al brigantaggio nelle campagne, si riversavano nelle città creando problemi di ordine pubblico agli amministratori locali.

Infatti, poiché non si poteva assicurare il mantenimento a donne e uomini di ogni età, la cui presenza ammontava fino al 20% della popolazione urbana, chi viveva in condizioni di indigenza era posto di fronte a una alternativa: o morire letteralmente di fame, o dedicarsi a borseggi, furti, rapine accompagnate da violenze che potevano giungere fino all’omicidio. Da rilevare che in epoca medioevale il sistema penale prevedeva come pena per chi si rendeva responsabile di reati le punizioni corporali – esposizione alla gogna, tratti di corda e frustate inflitti come torture, taglio delle mani, ecc. – fino alla pena di morte, perché il concetto afflittivo di giustizia era a carico della corporeità del responsabile del reato, che di conseguenza sul suo corpo doveva essere punito, in caso di reati gravi, fino alla morte5.

Il carcere era luogo di detenzione fino allo svolgimento del processo del reo, dopo di che, subita la pena corporale, il condannato tornava a vivere la precedente condizione di indigenza, trovandosi di fronte alla stessa alternativa tra morire di fame o delinquere.

Pertanto, per fare fronte a queste situazioni che non presentavano soluzioni efficaci al problema dell’ordine pubblico6 nacquero le prime politiche di intervento sociale, antesignane di quello che sarà il moderno Welfare.
La prima nazione che diede vita a questi interventi di politiche sociali fu l’Inghilterra, avviando nel XVIII secolo interventi legislativi, formalizzati e codificati definitivamente nel 1597, regnando Elisabetta I, con le Poor Laws, che restarono in vigore fino al 1834.

Il primo provvedimento legislativo del complesso delle Poor Laws fu l’Ordinanza dei Lavoratori istituita il 18 giugno 1349 da Re Edoardo III d’Inghilterra, ampliata nel 1350.

Nacquero così le Poor House, divenute poi workhouse – termine che risale al 1631 – che ospitavano poveri ai quali veniva garantito tetto e cibo pur di toglierli dalle strade, evitando che si rendessero responsabili di reati che costituivano pericolo per l’ordine pubblico.

La permanenza nelle Poor House era vincolata all’obbligo per i poveri ricoverati di imparare un lavoro per poi trovare una occupazione, ma poiché l’offerta di lavoro nei settori di possibile collocazione – soprattutto l’artigianato e i servizi presso case nobiliari o di cittadini abbienti – non poteva assorbire la gran massa di poveri usciti dalle Poor house, di conseguenza non vi era una soluzione efficace per il pauperismo, e le Poor house continuarono a esistere nel tempo, fino alla rivoluzione industriale che modificò radicalmente la modalità di gestione dei poveri.

Inoltre, per ospitare i soggetti che vivevano situazioni di disagio – malati, anziani, disabili, ex – prostitute, ecc. – che non potevano più essere avviati al lavoro, per cui le Poor house non rappresentavano più una soluzione, sorsero altre strutture per ospitarli, quali Ospedali sul modello francese e gli Ospizi di carità gestiti principalmente da religiosi.

La situazione del Piemonte e di Torino non differiva da quella di altre nazioni e grandi città europee per quanto riguardava la consistenza dei poveri e degli indigenti e la necessita’ di gestire i fenomeni connessi al pauperismo.

Quindi, nel Regno sabaudo, mentre in piccoli centri abitati e comuni delle campagne l’assistenza ai poveri era garantita da Ordini religiosi e Confraternite laiche, antesignani del volontariato e inseriti nell’agire filantropico settecentesco, istituzioni caritatevoli che si prendevano cura degli indigenti erano sorte a Torino già nel XVII Secolo.

È il caso dell’Ospizio di Carità, rifondato nel 1649 grazie all’intervento filantropico della Compagnia di San Paolo, la più grande e influente organizzazione caritatevole cittadina, che fu trasferito nel 1683 in Via Po, la cui importanza ed efficacia nel gestire poveri e indigenti della città erano tali da ricevere continue donazioni dai nobili filantropi, che potevano fregiarsi del riconoscimento dato dall’esposizione di stemmi che ornavano e ornano a tutt’oggi il palazzo che ospitava l’Ente.

Da rilevare come l’organizzazione e gestione dell’Ospizio fosse formalizzata bilanciando le forze politiche laiche della capitale con il Comitato Esecutivo composto dall’Arcivescovo, due cortigiani indicati dal Duca, un rappresentante delle Corti Supreme e il Sindaco, mentre l’Organismo che deliberava definendo l’andamento dell’Ente comprendeva cinque membri scelti dal Consiglio comunale, due rappresentanti della Compagnia di San Paolo e sei membri indicati dalle corporazioni cittadine: una dirigenza a nettissima maggioranza laica, che in qualche modo sarà di riferimento, qualche decennio dopo, anche per definire la direzione dell’Educatorio della Provvidenza.

Gli ospiti erano soprattutto anziani, infermi o malati, soggetti affetti da tubercolosi e sifilide, che facevano domanda per essere ammessi e per i quali l’Ospizio provvedeva alle cure mediche.
Ma venivano accolti anche soggetti catturati nelle retate e incarcerati per accattonaggio, cosicché l’Ospizio interveniva anche per mitigare il problema dei vagabondi, che minavano l’ordine pubblico, senza però, come precedentemente evidenziato per le Poor house di ogni tipo, risolvere il problema in modo efficace.
Per evidenziare l’alto numero di cittadini poveri basta valutare l’incremento nel tempo di ricoverati che l’Ospizio ospitò e gli addetti che se ne prendevano cura: nel 1690 erano presenti 494 persone tra addetti e ricoverati; nel 1703 il numero delle presenze ammontava a 1500, che nell’inverno particolarmente duro del 1709 salirono a 1750, per poi scendere a 866 nel 1713, diventando però una consistenza numerica costante per la struttura asilare. La gestione che l’Ente faceva degli ospiti era del tutto simile a quella delle altre strutture che in Europa si prendevano cura di poveri e indigenti.

Infatti, ognuno riceveva 680 grammi di pane e 170 grammi di carne, una zuppa di verdura e una misura di vino come razione giornaliera e, considerata anche la spesa per vestiario e lenzuola per i letti ove dormivano, il loro mantenimento veniva a costare 92 lire all’anno pro capite, ammontare della somma coperto quasi interamente dalle rendite dell’Ospizio.

Tuttavia, una esigua quota era ricavata dagli opifici situati all’interno della struttura asilare, ove dagli anni 1660-70 gli ospiti che potevano lavorare – anche orfani maschi e femmine – erano addetti alla lavorazione della seta, mentre dal 1697 furono assegnati alla produzione di indumenti di lana per la confezione di uniformi militari per il regio esercito.

Da rilevare che l’Ospizio non si limitava all’accoglienza degli indigenti di ogni tipo, ma si occupava anche di aiuti ad altri soggetti in difficoltà non ricoverati, in particolare con una distribuzione gratuita di pane a quei poveri che avevano una dimora ove vivere, e ai numerosi “poveri vergognosi”, tenuti in considerazione particolare per il loro stato sociale più elevato degli indigenti, che si rivolgevano all’Ospizio per avere di che sfamarsi.

In questa situazione dei poveri e indigenti, che impegnava a fondo le istituzioni caritatevoli dell’epoca, Vittorio Amedeo II mise mano anche alla razionalizzazione del sistema assistenziale per renderlo più omogeneo e funzionale sotto il controllo dello Stato.

Dopo una serie di inchieste condotte nelle varie province per avere un quadro chiaro della situazione dell’assistenza e degli assistiti, con riferimento al modello francese dei Bureaux de charitè istituiti da Luigi XIV e avvalendosi del gesuita Andrea Guevarre7, già responsabile delle riforme volute dal Re Sole e di interventi assistenziali nello Stato Pontificio, il Re, nel 1717, avviò un processo di riforme al fine di rendere più omogeneo e funzionale il sistema assistenziale nei domini sabaudi e di sottoporlo al controllo statale.
Il metodo del gesuita per contrastare la povertà, uniformando la sua strategia alla politica economica mercantilista del Regio Governo, consisteva nel condurre alla disciplina i poveri mediante un regime di lavoro e osservanza religiosa, impartendo un’educazione per evitare tentazioni e vizi così da rendere la loro vita produttiva e timorata di Dio.

E mentre per le vie di Torino Guevarre, utilizzando la tecnica collaudata in sue precedenti campagne di riforma della carità, predicava con alcuni religiosi, Vittorio Amedeo II, in un sincretismo di autoritarismo e repressione, promulgava ordinanze per costringere i poveri a presentarsi all’Ospizio di carità – al contempo, per far seguire i fatti ai decreti, il Governatore di Torino mandava i soldati a rastrellare gli indigenti che si rifiutavano di andarvi volontariamente – e confermava il bando contro chi elemosinava o praticava elemosine individuali, affinché tutte le offerte erogate fossero controllate dallo Stato.

Riguardo all’Ospizio di carità, il Re, per avere un controllo più efficace dell’Ente, ne modificò la struttura amministrativa con l’allargamento del Consiglio direttivo e affidando un maggior potere decisionale ai membri nominati dal governo.

In conclusione, l’Ospizio di carità di Torino fu di fatto rimodellato nella sua gestione per diventare agli occhi dei torinesi il luminoso esempio di come doveva funzionare la riforma. E per ribadire nell’immaginario collettivo l’importanza della riforma, l’iter dei dettami riformisti si concluse in modo eclatante a Torino il 7 aprile 1717 con una grande rappresentazione politico-teatrale diretta da Guevarre, utilizzata in precedenti occasioni8.

Pochi giorni dopo il pubblico evento, fu emanato un Regolamento dell’Ospizio, che Vittorio Amedeo II precisò dovesse rimanere “sempre laico” 9.

Per centralizzare ulteriormente il controllo sulle risorse destinate all’assistenza di soggetti deboli, nel 1730 il Re estese il controllo del governo statale anche sulla Compagnia di San Paolo, nominando un Protettore che sovrintendesse all’operato dell’Ente filantropico

Dalle origini alla fine del XIX Secolo

È in questo contesto economico – sociale e in un periodo particolarmente fervido di riforme regie che nasce l’Educatorio della Provvidenza nel 1720, affiancandosi ad altri Enti benefici che si prendevano cura delle donne, le più fragili tra i soggetti deboli che vivevano a Torino in quegli anni.

Infatti, in generale, a quell’epoca, la condizione delle donne era di pressoché totale subalternità nell’ambito della vita famigliare e sociale.

In famiglia, quindi in condizioni considerate “normali”, la loro dipendenza economica dai mariti era la condizione più diffusa, sia presso le famiglie nobili – nelle quali le donne entravano spesso per matrimoni di convenienza economica e di prestigio delle casate di appartenenza – sia presso i nuclei famigliari appartenenti ai ceti medi e a quelli più bassi.

Ma la loro situazione peggiorava, qualunque fosse la loro origine e la condizione sociale, nel momento in cui la perdita dei genitori o la vedovanza le privavano del sostentamento necessario alla vita quotidiana per se, e se avessero dei figli, della prole.

Quindi, particolarmente a rischio di finire in povertà e indigenza erano le donne sole, soprattutto le più giovani e le vedove, non in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Per loro si presentavano tre alternative: o trovare occupazione presso famiglie agiate in qualità di domestiche, cameriere, cuoche, o, nel migliore dei casi, di istitutrici per i figli, o andare a lavorare presso imprese artigiane o manifatturiere, oppure di cadere in situazioni di devianza, dandosi alla prostituzione, che rappresentava un problema molto grave anche perché ampiamente diffusa, o entrando come informatrici e aiutanti nei “giri” della malavita organizzata dell’epoca, gestita esclusivamente da uomini .
In attesa di trovare una sistemazione lavorativa in grado di garantire loro una qualità della vita dignitosa e decorosa, ma soprattutto per evitare di prostituirsi o entrare nei “giri” malavitosi, si presentava alle Istituzioni cittadine la necessità di ospitarle in luoghi capaci di accoglierle in attesa di tempi migliori, mettendole al sicuro da problemi che la vita, all’esterno dei luoghi di ricovero e tutela gestiti dagli Enti filantropici che fornivano la dovuta e necessaria assistenza, poteva presentare problemi ingenti. Diversi erano gli Enti che si occupavano delle donne sole, alle quali si affiancò, con sue caratteristiche peculiari, anche l’Educatorio della Provvidenza. Il più antico operante era il Monastero delle orfane, fondato nel 1595 dalla Duchessa Caterina di Savoia, diretto da nove Rettori, tre laici e sei ecclesiastici, con la collaborazione di dodici nobili dame, che ospitava un centinaio di fanciulle tra gli 8 ed i 12 anni, di buona famiglia, orfane prive di uno o di entrambi i genitori, che dovevano essere “sane e disposte di corpo e di intelletto”. Le ospiti ricevevano un’istruzione religiosa, nozioni per leggere e scrivere, venivano impiegate in lavori di filatura, tessitura e ricamo e fornite di una dote quando uscivano dal monastero per sposarsi o entrare in convento.
Attiva a favore di donne sole era anche la Casa del Soccorso, nata nel 1589 e operante sotto la Compagnia di San Paolo, che ospitava “giovani vergini dall’onore pericolante”, di età superiore ai quattordici anni e torinesi di nascita, “in pericolo attuale prossimo di perdere l’onestà” o “essere di bellezza tale a giudizio dei Deputati e del Rettore da correre rischi ancora più grossi” o ancora “essere senza padre e non avere altro rifugio”. Similmente alle ospiti del Monastero, le ragazze del Soccorso, che potevano rimanere nell’Istituto solo un anno, imparavano a cucire, ricamare, inamidare, stirare, “far bottoni e camicie”, preparandosi alla vita di lavoro che le attendeva uscite dalla Casa.

Nel 1684 sorse il Conservatorio femminile del Deposito, diretto da una Madre e da una Governante, dipendenti dai Direttori dell’Opera, sempre amministrato e finanziato dalla Compagnia di San Paolo, per ospitare una trentina di donne che “vivevano con pubblica prostituzione”, oltre alle “cadute ma non esposte al pubblico” e a quelle che erano in “pericolo di cadere o in sospetto di già seguita caduta”10, che interveniva a favore delle ospiti con le stesse caratteristiche e modalità dei due Enti simili, accogliendole fino a quando i Direttori fossero sicuri che non sarebbero ricadute nel giro della prostituzione11.

È dunque in una situazione di attenzione da parte di Istituzioni ed Enti benefici riguardo alle difficili condizioni di vita delle donne sole che la Marchesa Du Vache de Chateauneuf, nobildonna di origine savoiarda, moglie del Marchese de la Pierre, Cavaliere della SS. Annunziata e Gran Ciambellano del Re, nell’anno 1720 diede l’avvio alla storia plurisecolare dell’Educatorio della Provvidenza, ospitando nel proprio palazzo un numero di ragazze compreso tra le quattro e le sei, con età che andava tra i dieci ed i diciotto anni, bambine e adolescenti che rientravano nelle tipologie citate di orfane o povere.

La finalità dell’azione compiuta dalla Marchesa era di evitare che finissero in miseria e che subissero la violenza di un contesto sociale che per chi, donna, viveva in difficoltà, poteva essere destruente oltre che da quella che avrebbero rischiato di subire restando in famiglie attraversate da problemi che ne avrebbero minato la crescita.

Le azioni finalizzate alla gestione delle giovani ospiti erano praticamente le stesse che si concretizzavano negli altri Enti, citati in precedenza, con una particolare attenzione iniziale all’insegnamento dell’arte del ricamo al fine, oltre di accoglierle in una struttura protetta e di mantenerle fornendo loro vitto e alloggio, di metterle in condizione, una volta imparato il mestiere e raggiunta l’età adulta, di trovare un lavoro.
Alcune considerazioni vanno fatte riguardo alla iniziativa della Marchesa.

Innanzitutto, la scelta di sostenere le ragazze si inseriva a pieno titolo nelle azioni filantropiche del tempo: infatti, la Marchesa metteva a disposizione come risorsa economica, di valore non tangibilmente monetizzabile, un immobile in suo possesso – la struttura abitativa del suo palazzo – e le sue competenze in merito alla situazione.

L’aspetto della competenza della Marchesa è da sottolineare.

Infatti, in primo luogo, la nobildonna dimostrava, utilizzando le modalità di accoglienza e gestione delle ragazze, di conoscere in primis la loro condizione, di essere edotta su quali erano le azioni concrete di presa in carico delle ospiti da parte di altri Enti benefici e soprattutto di come fosse necessario metterle in condizioni di imparare un lavoro per mantenersi adeguatamente, sia che si sposassero, sia che si trovassero a vivere da sole.

Inoltre, la scelta di optare per il settore del tessile, come peraltro gli altri Enti simili, per orientare le professionalità delle ragazze dimostrava che la nobildonna aveva ben presente quali fossero le tendenze di sviluppo economico del tempo, che individuavano nel settore tessile quello passibile di una evoluzione che si poteva perpetuare nel tempo.

Non è del tutto peregrino pensare che la Marchesa, date le sue frequentazioni francesi, avesse anche recepito che i prodromi della rivoluzione industriale, che stavano avvenendo in Inghilterra, nazione invisa ai Francesi che proprio per questo ne conoscevano le dinamiche economiche, sociali e culturali interne, si basavano soprattutto sullo sviluppo del settore della lavorazione della lana e delle sete.

Quindi, formare le ragazze a operare a tutti i livelli – dai più semplici del cucito a quello più complesso della tessitura per specializzarsi poi nella confezione di ricami, trine e merletti di qualità – significava assicurare alle future donne una vita serena, autonoma e al riparo dai rischi della prostituzione e della malavita.
Poiché l’iniziativa procedeva dando buoni frutti rispetto all’evoluzione personale delle ragazze, la Marchesa decideva di ampliarne il numero da accogliere e ospitare: quindi, nel luglio del 1722, prese in affitto due locali nella casa di Bertalazzone detto il Grosso in Via dell’Accademia Reale, oggi Via Verdi, collocandovi un piccolo laboratorio-scuola.

Le ragazze ospitate raggiunsero il numero di otto, di età compresa tra gli otto e i dieci anni12 , e poiché si rendeva necessario seguirle in maniera più adeguata, la Marchesa, dal 7 agosto 1722 ne affidò la gestione a Ludovica Ambrosia di Chieri, trentacinquenne che per sette anni era stata allieva del Deposito di San Paolo. che assunse il titolo di Madre. Questa che fu la prima sede dell’Educatorio fu inaugurata l’8 agosto dal confessore della Marchesa Padre Gosso, e prese il nome di Casa della Provvidenza, traslando il nome alle ragazze, che si chiamarono Figlie della Provvidenza.

La Marchesa, che aveva il ruolo di Direttrice, approvò i primi regolamenti interni della Casa “per gli esercizi di pietà, per la vita civile, per gli esercizi del lavoro e per tutte le azioni e occupazioni domestiche delle figlie”13, approvando quanto stabilito da Madre Ludovica Ambrosia, che vi aveva inserito modalità tipicamente monacali, tra le quali l’uso di recitare in comune, ogni ultimo giorno del mese, un “Te Deum”, la recita quotidiana dell’Ufficio della Beata Vergine e la mezz’ora di letture spirituali, lette da un’allieva durante i momenti di lavoro affinché tutte le ragazze impegnate alla loro opera le ascoltassero. Tuttavia le ragazze rimasero nell’appartamento solo poco tempo, in quanto dopo appena tre mesi furono trasferite in cinque camere nella casa del Conte Polizzano, situata sempre in Via dell’Accademia Reale, nuova sistemazione che permise di ampliare il numero delle ospitate a diciannove, oltre la Madre.

Diversi furono negli anni i traslochi dell’Ente, necessari per il progressivo incremento delle ragazze accolte14.
I passaggi di sede più significativi nella storia dell’Ente avvennero nel 1750 nell’odierna Via XX Settembre a Torino e, più recentemente, nel 1930 nella collocazione attuale di Corso Trento 13 nell’Isola pedonale della Crocetta del capoluogo piemontese.

Le necessità di gestione della Casa richiedevano risorse che non sempre erano nella disponibilità dell’Ente, e il sostengo economico, oltre a lotterie organizzate dalla Marchesa15, fu garantito in questa prima fase anche da interventi dei filantropi dell’epoca, quali il lascito della damigella francese Pasquallon, già ospite per qualche tempo della Casa della Provvidenza: poiché non aveva eredi, le duemilaottocentoquaranta lire lasciate furono incamerate dal Patrimonio Regio e successivamente concesse da Vittorio Amedeo II alle Figlie della Provvidenza.

A questo punto occorre considerare il ruolo che Casa Savoia ebbe nella storia dell’Educatorio, primo fra tutti i suoi esponenti, Vittorio Amedeo II che, nel suo fervore riformista dello Stato, aveva messo mano anche alla riforma dell’istruzione. Infatti, tra il 1717 e il 1738, aveva emanato disposizioni per attribuire allo Stato compiti educativi e assistenziali, precedentemente gestiti dalla Chiesa in una situazione di quasi totale monopolio, nelle principali città del Piemonte, soprattutto per quanto concerneva l’istruzione secondaria, gestita dagli Ordini di Gesuiti, Barnabiti, Somaschi e Scolopi mediante collegi e piccole scuole. Le disposizioni, senza mettere in discussione gli aspetti religiosi, che servivano da collante valoriale e culturale per la tenuta della coesione sociale del Regno, intendevano a ridurre la preponderanza degli Ordini religiosi nell’educazione dei giovani.

Di conseguenza, con le Costituzioni del 1720 e 1729, le riforme scolastiche coinvolsero dapprima l’Università, affidandole in specifico i Corsi della Facoltà di Arti, Teologia e Diritto canonico, interessando successivamente le Scuole secondarie, istituendo trentasei “Scuole regie”, quattro a Torino e le restanti nelle province.

Con il potenziamento delle scuole Secondarie, affidate al controllo dello Stato, il Re intendeva formare i futuri quadri direttivi del Paese, considerando le Scuole di quell’ordine e grado come il settore educativo, pedagogico e formativo indispensabile per quegli studenti che, passati all’Università, dovevano diventare la classe dirigente di uno Stato che intendeva giocare un ruolo importante nello scacchiere europeo.
Inoltre, formando una generazione di dirigenti statali educati al rispetto delle leggi e all’obbedienza acritica verso l’autorità, il sistema costituito di potere economico e politico poteva mantenere una stratificazione sociale che garantiva, privilegiando i ceti più elevati, l’andamento lineare del sistema.
Infatti, potevano seguire i diversi livelli dell’istruzione solo i figli di genitori appartenenti ai ceti più elevati della scala sociale, non certo di lavoratori salariati, domestici, braccianti, contadini, e men che meno, gli inabili, i bambini abbandonati, gli indigenti e i poveri.

Riguardo all’istruzione, una situazione particolare riguardava le donne.

Infatti, per quelle appartenenti ai ceti aristocratici e borghesi era permesso apprendere perlomeno a leggere e scrivere perché funzionale al ruolo e funzione che veniva attribuito alle donne dal sistema sociale del tempo: essere buone mogli e buone madri, capaci nella gestione domestica e del personale addetto alle mansioni della casa, di amministrare il patrimonio familiare, essere accoglienti in modo grazioso e spiritoso verso gli ospiti e seguire i figli impartendo loro un’educazione di alto contenuto morale e religioso. Per le donne appartenenti ai ceti inferiori non era previsto nessun percorso scolastico ed educativo, e le modalità di gestione domestica e di educazione delle prole venivano tramandate alle figlie dalle madri, che a loro volta le avevano ricevute dalle loro genitrici.

Lo stesso avveniva per i figli maschi, educati alla vita dai padri.

Da notare come, nel mondo contadino e del lavoro fosse rilevante nella educazione e socializzazione non solo delle ragazze e dei ragazzi, ma anche dei giovani e, per molti versi, degli adulti, il ruolo degli anziani, che tramandavano saperi, esperienze, modelli di comportamento e di vita, essendo, di fatto,“educatori informali” delle giovani generazioni. Considerando la condizione diversa delle donne rispetto all’istruzione, si comprende quanto fosse rilevante il ruolo dell’Educatorio della Provvidenza nell’educare, oltre ad accogliere e sostenere, bambine e ragazze che non avevano nessuna possibilità di accedere al sistema educativo né madri e padri di riferimento.

Il ruolo dell’Educatorio era fondamentale riguardo alla loro educazione, non limitandosi ad addestrarle per entrare nel mondo del lavoro tessile, ma per fornire una istruzione che sarebbe loro servita in futuro e per indicare valori di riferimento da seguire una volta usciti dalla Casa per entrare nel mondo, non essendo più protette dall’Ente.

Nella sua attenzione all’educazione dei propri sudditi, Casa Savoia si trovò a doversi occupare anche delle figlie della Provvidenza e dell’Ente che ne aveva cura. Infatti, nel 1730 la Marchesa Du Vache si trasferì a Chambery, probabilmente seguendo Vittorio Amedeo II che aveva abdicato lasciando il trono al figlio16, provocando un grave problema economico per l’Ente perché in precedenza aveva sempre provveduto a procurare i mezzi di sussistenza per le ragazze, intervenendo con proprie risorse economiche a pagare affitti e alimenti quando venivano a mancare gli interventi filantropici dei benefattori.

La mancanza di fondi portò l’Ente al limite della chiusura, causando l’uscita di molte fanciulle dalla Casa.
È in questo frangente che il regio intervento comincia a consolidarsi, con la decisione del nuovo monarca, Carlo Emanuele III, che nel 1731, concedendo verbalmente la “Immediata Real Protezione”, prese l’Educatorio sotto la sua protezione, coinvolgendo nella gestione in qualità di Responsabile il conte Birago di Borgaro, il commerciante Borbonese come Direttore e la Marchesa di Caraglio come direttrice.

Per superare il dissesto economico si stilò un Regolamento che prevedeva l’ingresso in Educatorio di ragazze pensionanti con una retta annuale, che spesso veniva corrisposta da benefattori filantropi.

Contestualmente all’intervento del Re si fecero avanti i filantropi per consolidarne la situazione finanziaria, come il banchiere Bogetto: che lasciò in eredità 10.000 lire e l’abate Giuseppe Giannazzo di Pamparato con 62.000, somma sufficiente al mantenimento della Casa per un anno.

La formalizzazione dell’impegno della Corona nel sostenere continuativamente l’Educatorio avvenne il 4 maggio 1735 con l’emanazione da parte di Carlo Emanuele III delle Regie Patenti che ufficializzarono la Regia Opera della Provvidenza come stabile e perpetua e istituirono un Consiglio di marcata valenza laica, poiché comprendeva come Protettore il Conte di Borgaro, cui spettava il compito della sovrintendenza generale, e 4 direttori, 2 ecclesiastici – l’abate Saluzzo di Garessio e il cappellano Morutto – e 2 laici – il mercante Spirito Maria Borbonese e il signor Giuseppe Enrico Piovano, mentre fu scelta come Dama la contessa Angelica Ponte di Casalgrasso per curare la buona educazione delle ospiti e, come Madre, la mercante Maria Maddalena Rolando col compito specifico di direzione dei lavori delle ragazze.
Fu stilato un Regolamento in base al quale le ragazze dovevano assistere alla Messa in Cappella ogni mattina, ascoltare letture “edificanti” durante i pasti e il canto di inni sacri mentre lavoravano, oltre a compiere ogni sera un esame di coscienza.

Le differenze rispetto alla vita monastica consistevano nel fatto che non indossavano un’uniforme, avevano denaro da gestire secondo la loro volontà e potevano fare ricorsi. Queste modalità di vita delle ragazze, decisamente diverse da quelle monacali, evidenziano l’importanza della valenza laica del Consiglio, poiché gli estensori del Regolamento, pur accettando la presenza degli ecclesiastici, voluti dal Re affinché le ragazze recepissero come valori la pietà cristiana e il timore di Dio, temendo che i religiosi travalicassero il proprio ruolo, inserirono nel documento la significativa precisazione:“I Direttori ecclesiastici non hanno alcuna ingerenza nella direzione delle coscienze delle Figlie”.

L’Educatorio si sviluppò in un crescendo di inserimenti di ospiti per tutto il XVIII secolo, con alcuni eventi significativi della sua evoluzione a favore dell’educazione delle ospitate.

Il 1748 è un anno importante per l’Ente in quanto Carlo Emanuele III approva con Regie Patenti del 15 settembre i Regolamenti firmati dal Protettore e dai Direttori, che così vengono formalizzati istituzionalmente dallo Stato.

I Regolamenti sono suddivisi in tre titoli: il primo riguarda i compiti delle diverse figure che dirigono l’Ente17, il secondo “le persone preposte e impiegate nell’Opera per il buon governo e servizio di essa”18, mentre il terzo titolo normava l’ammissione delle figlie fissandone i limiti di età tra i dieci e diciotto anni, la residenza negli Stati Sardi, e determinandone il congedo al raggiungimento dei venticinque anni e l’assunzione da parte dell’Ente di una congedata che avesse dimostrato particolari abilità come maestra.
Insegnanti e Figlie venivano retribuite coi ricavi delle vendite dei lavori, dedotte le spese, nella misura di 1/4 alle Figlie, 1/4 alla Sottomadre, 1/3 alla Madre e 3/16 alle Invigliatrici. A tutte si garantiva vitto e alloggio gratis, con l’onere di provvedere con le proprie risorse economiche al vestiario che, pur scelto in base ai propri gusti, doveva essere a norma di regolamento, pulito, modesto e senza lusso, ma non avere stessi colori e fogge uguali.

Nel 1749 L’Educatorio si trasferì nella sede dell’attuale via XX Settembre, trasferimento che rappresentò un cambiamento sostanziale della sua attività in quanto, a seguito della notorietà dell’Ente, molte famiglie del ceto medio iniziarono a inviarvi come pensionanti le proprie figlie per essere educate nella crescita, permettendo così all’Amministrazione di incrementare il numero dei posti gratuiti per le povere e disagiate, incremento che fu finanziato anche con un sussidio più cospicuo erogato dal Re.

Il XVIII Secolo si chiude con l’annessione del Regno di Sardegna alla Repubblica Subalpina di Napoleone Bonaparte.

Pur dovendo sopravvivere nel nuovo regime, in un clima di conflitto che aggravò le condizioni soprattutto dei contadini che, persa la propria attività a causa delle guerre, si riversarono in città, incrementando il numero dei poveri, l’Educatorio mantenne il suo ruolo di prestigio, non subendo rovesci economici, al punto che, nel 1803, degli Ospizi operanti in Torino, fu l’unico, con l’Opera Bogetto, a chiudere i conti positivamente.
L’Ente riuscì anche ad adattare ai nuovi tempi il proprio sistema di educazione, dotandosi di modelli pedagogici ed educativi più moderni che favorivano l’apprendimento da parte delle ospiti di conoscenze e competenze sia teoriche che pratiche, rendendosi ancora più appetibile per le famiglie del ceto medio che, dati i costi delle rette degli Istituti di educazione privati, non potevano permettersi di collocarvi le figlie, inviandole quindi all’Educatorio.

Le nuove forme di istruzione e formazione, che non vennero più modificate nel periodo della Restaurazione col ritorno dei Savoia nel Regno, erano maggiormente attinenti alle richieste più moderne dei ceti sociali emergenti, primi fra tutti quei mercanti e artigiani che si preparavano a diventare gli imprenditori che avrebbero dato vita alla rivoluzione industriale, che dall’isola britannica si stava espandendo in tutta Europa.
Col vento della Rivoluzione industriale si modifica radicalmente, nel secolo che portò all’Unità d’Italia, il contesto economico e sociale in cui l’Ente operò nel XIX Secolo.

Come negli altri Paesi europei dove l’industrializzazione stava facendo passi da gigante, anche il Regno dei Savoia e poi d’Italia vide il sorgere e consolidarsi, con l’evoluzione delle tecnologie applicate alla meccanica, il nuovo macchinismo, che modificò il modo di produrre degli imprenditori e di operare dei lavoratori.
Il settore tessile subì un’evoluzione notevole con l’utilizzo dei telai che funzionavano meccanicamente e non più spinti dalle braccia umane, e intorno agli stabilimenti tessili si formarono le prime industrie meccaniche che producevano macchinari usati anche in altri settori e fabbriche che costruivano locomotive, vagoni e materiali rotabili per sostenere l’incremento dei trasporti, necessari per favorire la commercializzazione delle materie prime finalizzate alle produzioni di merci, e si sviluppò l’industria bellica, impegnata nella produzione di armamenti necessari alle Guerre di Indipendenza che portarono definitivamente all’Unita d’Italia e al suo consolidamento contro il brigantaggio, sostenitore nel Meridione dei nostalgici del Regno Borbonico.

Gli stabilimenti nati nei diversi settori industriali ebbero una evoluzione positiva e lineare, che ne garantì lo sviluppo anche nel Novecento.

Pertanto, a Torino, nel settore tessile, si svilupparono nel periodo a cavallo tra il XIX e XX secolo l’opificio tessile Abrate Depanis, azienda produttrice di abiti pronti, divenuto poi Cotonificio Bass Abrate e successivamente, Gruppo Finanziario Tessile, la Filatura Tollegno, il Cotonificio Hofmann, la Filatura dei Fratelli Piacenza e più tardi, nel 1917, (la Snia Viscosa), il cotonificio Mazzonis, detto la “Bianchina”, la fabbrica tessile Eratelli Zerboni, la Manifattura Giovanni Paracchi&C., dove si svolgeva la tessitura, la tintoria e l’appretto dei “tappeti da terra”, il Cotonifico Valle di Susa e il calzaturificio Superga.
Nel settore affine al tessile della conceria nacque la CIR (Concerie Italiane Riunite).

Nel settore meccanico, nacquero la Società Nazionale delle Officine di Savigliano, trasferita dalla cittadina cuneese a Torino nel 1881, attiva nella produzione di costruzioni metalliche e materiale mobile e fisso per ferrovia e la Cimat costruzioni meccaniche.

Nella Torino industrializzata spiccava anche un’industria particolare, che si sviluppò anche nei decenni successivi: quella della cosiddetta arte bianca, con la produzione di dolciumi di qualità, settore di cui favorirono l’evoluzione le due fabbriche di cioccolato Caffarel, nata nel 1818 in Via Carena e la Michele Talmone fondata nel 1850.

Ma soprattutto la fine del XIX Secolo vide nascere la FIAT che, fondata l’11 luglio 1899 raccogliendo i contributi economici e l’esperienza di tecnici e costruttori di automobili, era destinata a definire le sorti di Torino, del Piemonte e di tutto il Paese nei decenni successivi, fino alla crisi degli anni Ottanta del secolo che chiuse il secondo millennio.

La storia della nascita della Fabbrica Italiana Automobili Torino è emblematica di come l’industria meccanica e metalmeccanica si era evoluta nel corso dell’Ottocento.

Infatti, fu una dozzina di imprenditori, possidenti, aristocratici e professionisti che decisero di dare vita a una fabbrica per produrre automobili, animati da Emanuele Cacherano di Bricherasio e Cesare Goria Gatti, che avevano già costituito e finanziato la Accomandita Ceirano & C., fabbrica che costruiva la Welleyes, un’automobile progettata dall’ingegnere Aristide Faccioli e costruita artigianalmente da Giovanni Battista Ceirano.

Poiché la Welleyes aveva avuto notevole successo alla presentazione, Bricherasio e Gatti coinvolsero un gruppo di conoscenti nell’acquisire esperienze e competenze e di lavoratori della “Accomandita Ceirano & C.” per organizzarle su scala industriale, seguendo la tendenza imperante nell’Europa Settentrionale.
Nell’iniziativa coinvolsero anche Roberto Biscaretti di Ruffia, il marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia, il banchiere e industriale della seta Michele Ceriani Mayneri, l’avvocato Carlo Racca, il possidente Lodovico Scarfiotti, l’agente di cambio Luigi Damevino e l’industriale della cera Michele Lanza, che poi si ritirò dall’impresa nascente in quanto, avendo già costruito in proprio nel 1895 una delle prime automobili italiane e conoscendo le difficoltà tecniche a cui si andava incontro, non ritenne opportuno escludere dai fondatori Giovanni Battista Ceirano, principale esperto meccanico, escluso perché non apparteneva ai ceti alti dei fondatori. La defezione di Lanza fece la fortuna della famiglia Agnellli, in quanto Giovanni Agnelli, coinvolto in extremis nell’impresa dall’amico ed ex commilitone Scarfiotti assunse una parte della quota azionaria destinata a Lanza.

L’avvento e il consolidarsi dell’industrializzazione ebbero effetti di ricaduta significativi sulla stratificazione sociale, in primis con la formazione ai gradini più alti di un ceto di imprenditori della grande, piccola e media industria: principalmente ex – artigiani che, arricchitisi nel tempo, disponevano dei capitali necessari a dare vita alle prime industrie.

Per converso, con la immissione massiccia di lavoratori nelle imprese, ebbe inizio la formazione della classe operaia, che si sviluppò nel corso degli anni successivi dando vita alle organizzazioni sindacali e ponendo agli imprenditori antagonisti rivendicazioni salariali di tempi e ritmi di lavoro tollerabili da parte di chi prestava la propria opera e il proprio tempo nelle fabbriche.

Classe operaia che si rafforzò e consolidò sempre più, fino a mettere in forte crisi, nel Novecento, il sistema capitalistico, dando vita a lotte e iniziative sindacali e politiche che culminarono con l’occupazione della FIAT negli anni Venti del XX Secolo e successivamente contribuirono, con gli scioperi del 1943, alla caduta del Fascismo.

La industrializzazione portò con sé anche gravi problemi sociali ben più complessi di quelli che Casa Savoia aveva affrontato nei periodi precedenti.

Lo spopolamento delle campagne portò nelle città, e particolarmente a Torino, città faro delle nascenti industrie, masse di contadini che vennero inseriti nelle industrie.

Poiché il nuovo sistema economico basato sulla industrializzazione non procedeva secondo linee di sviluppo lineari e continuative, le crisi congiunturali provocavano licenziamenti che mettevano sul lastrico i lavoratori e le loro famiglie in un sistema sociale che non prevedeva nessuna copertura economica per chi si trovava da un giorno all’altro in condizioni di povertà e indigenza se le famiglie da mantenere erano numerose.
Soltanto grazie al volontariato e alla solidarietà delle Società di Mutuo Soccorso, che garantirono sostengo ai lavoratori nelle fasi di crisi e di lotte operaie, si assicurava la sopravvivenza di disoccupati e scioperanti, fino a che le riforme dei governi che si instaurarono nel Parlamento di un’Italia ormai Unita non garantirono coperture economiche che garantivano la sussistenza delle persone in difficoltà.

La filantropia, per quanto depauperata perché i ceti più abbienti tendevano a investire le proprie finanze nella nuova economia industriale sia per dare vita a nuove iniziative imprenditoriali, sia a finanziare quelle imprese già strutturate e ben avviate, e meno contribuivano alle associazioni benefiche, fu ancora la risorsa che consentì di dare sostegno e aiuto ai soggetti più deboli del nuovo sistema capitalistico.

La seconda metà dell’Ottocento vide in Torino nascere e crescere, accanto alle istituzioni benefiche già esistenti, l’impegno di quei religiosi che costituirono i Santi Sociali, che si prendevano cura degli indigenti e operavano anche con gli adolescenti e i giovani perché non entrassero nella spirale della malavita organizzata, attiva nel capoluogo piemontese in particolare nella zona del mercato di Porta Palazzo, ove attività commerciali alla luce del sole e malaffare convivevano, essendo queste ultime una forte tentazione per quei ragazzi che non vedevano nessuna prospettiva di futuro, date le difficoltà a trovare prospettive di lavoro continuativo per garantirsi un futuro onesto.

Per questi ragazzi fu fondamentale l’impegno di San Giovanni Bosco, sacerdote che, continuando il tentativo di radunare in un oratorio i ragazzi disagiati di Torino effettuato in precedenza da Don Cocchi e dopo avere incontrato i ragazzi che a Porta Palazzo cercavano lavoro, molti dei quali scartati perché fisicamente fragili e destinati a morire di stenti in breve tempo, conoscendo anche le condizioni dei piccoli spazzacamini, bambini di sette o otto anni19 e dopo avere visitato le carceri in cui vivevano ragazzi dai dodici ai diciotto anni di età rosicchiati dagli insetti e nutriti con tozzi di pane, decise di radunare intorno a sé tutti i piccoli spazzacamini e gli ex – detenuti in base a tre valori di riferimento: l’amicizia, l’istruzione e l’avvicinamento alla Chiesa.
La sua incessante attività lo portò a fondare nel 1854 la Società Salesiana, antesignana di quello che sarà l’Ordine Salesiano attuale, anche oggi molto attivo a favore dei giovani.

Inoltre, nel 1872, con Maria Domenica Mazzarello, fondò l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice che, con gli stessi valori di riferimento che Don Bosco aveva posto a base del suo intervento, si prendeva cura delle ragazze.

Nel contempo, nel 1828, un altro sacerdote, Giuseppe Benedetto Cottolengo fondò la Piccola casa della Divina Provvidenza, più conosciuta come “Il Cottolengo” dal nome del fondatore, che era un Istituto di carità che accoglieva i soggetti più fragili del contesto torinese: dementi epilettici, e sordomuti.

La gestione della Piccola Casa era a carico dello stesso don Benedetto Cottolengo, coadiuvato da un gruppo di giovani donne che si presero cura degli ospiti della casa, consacrandosi in seguito alla vita religiosa.
Alla morte del fondatore, avvenuta nel 1842, la Piccola Casa ospitava già 1.300 ricoverati, ma il numero si incrementò nel tempo, richiedendo ingenti spese di mantenimento, supportate comunque efficacemente e munificentemente dai filantropi cittadini.

In questo periodo, l’Educatorio non perse la sua rilevanza nel sostenere e accogliere le ragazze in difficoltà, poiché la povertà e i problemi collegati peggiorarono ulteriormente la condizione femminile.
Ma con una amministrazione accorta a cogliere anche le opportunità di incrementare le risorse dell’Ente, in particolare avvalendosi, oltre che degli introiti assicurati dai filantropi e dal nuovo Regno d’Italia, si continuarono a ospitare ragazze che si trovavano in difficoltà o a rischio di doverne affrontare.

Un’evoluzione nei contenuti educativi si ebbe per l’Educatorio come conseguenza della scolarizzazione di massa che il nuovo sistema industriale richiedeva per istruire addetti sempre più preparati con strumenti di conoscenza e saperi, almeno di base, che permettevano di ottimizzare la loro produttività nella organizzazione del lavoro.

Infatti, il nuovo macchinismo da utilizzare in modo ottimale, evitando rallentamenti e guasti nelle macchine che avrebbero rallentato la produzione, richiedeva una serie di conoscenze di base che solo la scuola di massa poteva garantire, pur mantenendo i lavoratori nel loro ruolo subalterno, mantenuto grazie a una cultura che veicolava valori che garantissero la tenuta del capitalismo, che intendeva consolidarsi in modo sempre più radicato nella gestione del sistema sia economico, che sociale e politico.

Pertanto, mentre lo Stato italiano di nuova formazione post – unitaria dava il via alla scolarizzazione di massa, anche l’Educatorio si adeguò alle nuove necessità di istruzione e preparazione delle proprie ospiti alle nuove modalità di lavoro e di vita sociale che le aspettava una volta dimesse.

Di conseguenza, fin dal 1850 il programma di educazione dell’Educatorio fu modificato basandolo non più soltanto verso l’educazione morale, civile e religiosa su cui aveva fondato in precedenza le basi pedagogiche ed educative delle ospiti, ma orientandolo anche verso un’istruzione intellettuale e fisica innovativa e più attinente alla modernizzazione dei tempi, dando anche vita a tutto il Corso elementare di base e al biennio degli ordini e gradi inferiori e superiori.

Nel 1875 l’Ente adotta un nuovo Statuto per adeguare quello vigente dal 1735 ai tempi, attuando una vera e propria trasformazione da Istituto di educazione di giovani ragazze in una Scuola a tutti gli effetti.
Alla fine del XIX Secolo, recependo il Regolamento De Santics che permetteva agli Enti morali di dare vita a scuole normali, l’Ente istituì nuove scuole: la Complementare e la Normale femminile per formare maestre, un asilo, una Scuola preparatoria alla normale, frequentate anche da fanciulle esterne.

Con il conseguente massiccio incremento di ragazze che frequentavano le nuove scuole, l’Educatorio divenne un istituto scolastico di tutto rispetto nella Torino di fine secolo.

Dagli inizi del Novecento ai giorni nostri

Riguardo al contesto economico sociale, il XX Secolo vede fin dai suoi albori il consolidarsi a Torino, e più in generale in tutta Italia, dell’economia industriale, grazie alla evoluzione della FIAT che continua a espandersi, in particolare nel Primo Dopoguerra, quando attiverà nuove linee di prodotto incrementando il settore automobilistico e sviluppando quello degli autoveicoli pesanti.

Nel primo ventennio e fino alla instaurazione della dittatura fascista, in tutta Italia, ma in particolare nelle grandi città industriali del Nord, si fanno sempre più aspri i conflitti tra il mondo imprenditoriale e la classe operaia, che si era ampliata con le massicce assunzioni nelle fabbriche e politicizzata grazie all’espandersi del Marxismo, lo strutturarsi e consolidarsi della coscienza di classe e la nascita dei partiti politici di massa di sinistra, quello Socialista e poi il Partito Comunista che nacque nel 1921 con la scissione di Livorno, e che occuperà la FIAT nel settembre del 1920, nel periodo che fu definito per l’alta conflittualità, Biennio Rosso.
Le contraddizioni sociali continuano a esistere nonostante che la maggior disponibilità di lavoro migliori le condizioni della popolazione, pur mantenendosi una stratificazione sociale che relativizza i benefici della industrializzazione, garantendo al tempo stesso un incremento dei profitti per il padronato e l’aumento dei salari conquistati a prezzo di scioperi e lotte da parte dei lavoratori, delle Organizzazioni Sindacali e dei partiti di sinistra, ma sempre proporzionalmente molto inferiori alla crescita esponenziale dei profitti degli imprenditori.

Il sorgere del Fascismo, sostenuto dal mondo imprenditoriale industriale e dai proprietari terrieri del settore agricolo, con la dittatura che si instaura per un ventennio nel Paese, pone fine con la repressione alle lotte operaie, che riprenderanno nel 1943 con una forza tale da contribuire in modo determinante, grazie agli scioperi – fondamentale quello alla FIAT, dove tempo prima Mussolini era stato accolto, in una visita, a suon di fischi – alla caduta del regime.

Il Fascismo, peraltro, era già avviato sulla via della decadenza rovinosa dovuta alla partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale e agli effetti di ricaduta delle imposizioni dittatoriali su una popolazione che non credeva più ai fasti dell’Impero ed era vessata dall’abolizione della libertà di stampa, dalle leggi razziali e dai sacrifici imposti da un conflitto bellico che aveva causato morti in gran parte delle famiglie italiane con le rovinose campagne combattute al fianco dell’esercito tedesco, di cui quella di Russia rappresenta l’emblema più evidente del fallimento bellico nazifascista.

In questo periodo, l’Educatorio della Provvidenza non cessa la sua azione al tempo stesso educativa e caritatevole.

Nel 1908 si dota di un nuovo Statuto che ribadisce lo scopo basilare dell’Ente di perseguire sempre l’educazione morale, intellettuale e fisica delle ospiti, non considerando nessuna distinzione e disparità di trattamento nell’accogliere ragazze provenienti da famiglie agiate con il pagamento di una retta mensile e le coetanee che giungevano da famiglie povere e che usufruivano di posti gratuiti resi disponibili dalla filantropia dei benefattori che sempre aveva sostenuto la evoluzione dell’Educatorio in tutte le sue fasi.
Il programma educativo del 1923 presenta una rilevante innovazione, in quanto riconferma la linea educativa tradizionale di fornire alle ragazze un’educazione religiosa, morale, intellettuale e fisica finalizzata a farle diventare buone madri di famiglia, ma dispone soprattutto di avviarle anche agli studi superiori, così da utilizzare lo studio per conseguire, una volta uscite, una migliore posizione nella società.
Col successivo regolamento del 28 gennaio 1924 l’Educatorio cambia la propria denominazione, non definendosi più Regia Opera della Provvidenza, ma Regio Educatorio della Provvidenza, gestito da un Consiglio di amministrazione nominato interamente dal Governo con mandato di applicazione alla Provincia, diventando di fatto un Ente che agiva sotto l’egida dello Stato e continuando a beneficiare dell’attenzione della Casa Savoia.

In un crescendo di significative trasformazioni non solo formali, ma sostanziali, il 23 dicembre 1929, a seguito del riordinamento degli Istituti Pubblici di Educazione Femminile concretizzato con Regio decreto, si riconobbe all’Educatorio la qualifica di Istituto Pubblico di Educazione Femminile.

Il 28 ottobre dell’anno 1930 veniva inaugurata e attivata la nuova sede di Corso Trento 13, che ospitò il primo Liceo classico femminile, edificio che oggi ospita la Fondazione.

Per quanto l’Educatorio continuava nella sua gestione a ispirarsi a una cultura apolitica, non poté non subire le nefande e discriminatorie imposizioni del Fascismo, cosicché nel 1939 dovette aggiungere nello Statuto allora vigente l’articolo 212 bis che stabiliva tassativamente che il personale dell’opera non poteva appartenere alla razza ebraica.

Per di più, come ulteriore ingerenza nella vita delle ragazze dell’Educatorio, tutte furono tesserate nelle organizzazioni giovanili fasciste, e nei programmi educativi si dovettero introdurre materie quali cultura fascista, puericultura, cultura militare, che furono soppresse con la caduta del regime nel secondo dopoguerra.

L’Educatorio dovette subire anche le conseguenze del conflitto, e fu bombardato subendo danni molto ingenti l’8 dicembre 1942, con il conseguente sfollamento delle ragazze e del personale che gestiva le Scuole.
Soltanto nel 1946-47 si ripristinò la sede di Corso Trento, nella quale fu allestito anche un pensionato per studenti universitari.

Il periodo del secondo dopoguerra vide una prima fase dei problemi che portarono alla successiva decadenza l’Educatorio. Infatti, poiché la guerra aveva causato il contarsi delle risorse economiche, in quanto i benefattori avevano dovuto impiegare i propri capitali per fronteggiare le spese della ricostruzione, poiché il bilancio era fortemente deficitario ed era difficile fare fronte alle spese di gestione per il costante rincaro del costo della vita, nel 1948 si aprirono le porte della sede di Corso Trento anche a studenti di genere maschile, con la speranza che i nuovi ospiti paganti avrebbero aiutato a ripianare il passivo dei conti dell’Ente.
L’inserimento dei ragazzi fu sospeso due anni dopo.

In effetti, nei decenni successivi ci fu una tenuta sostanziale dell’andamento economico, anche perché si istituirono la prima classe di un corso di Liceo scientifico femminile, un asilo in convenzione con la Casa dei bambini Maria Montessori, si attivarono corsi femminili di lingue estere per il conseguimento da parte delle ragazze della qualifica di corrispondenti commerciali esteri, professionalità di cui vi era molta domanda nel mercato del lavoro, data la ripresa dell’economia industriale.

Fu attivato anche un primo Liceo linguistico europeo per formare le ragazze alle moderne mansioni di concetto dell’industria e del commercio, dando loro una istruzione e formazione sia tecnica e linguistica che umanistica e giuridica, e un corso di Scuola media montessoriana, aperto anche ai ragazzi, il secondo in Italia dopo quello attivato a Roma. Ma negli anni Sessanta, a causa di una amministrazione meno accorta di quelle precedenti e per l’accumularsi di una situazione debitoria diventata insostenibile, cominciò la decadenza dell’Educatorio, fino al commissariamento avvenuto nel 1990.

Nel 1991 si deliberò lo scioglimento dell’Educatorio, e i locali furono affittati allo CSEA (Centro Studi Atlantici) e al COREP (Consorzio per la Ricerca e l’Educazione Permanente) al fine di reperire finanziamenti necessari per permettere una rinascita.

Nel 1999 l’Educatorio divenne un IPAB per gestire attività socio educative

La ripresa avvenne nel XXI Secolo con una nuova gestione che modificò in parte la natura dell’Ente, che seppe adeguarsi alle radicali trasformazioni che il contesto economico sociale torinese aveva vissuto negli ultimi tre decenni del secolo scorso.

Infatti, dopo una notevole espansione dell’economia industriale, che aveva dato vita al Boom economico degli anni Sessanta, trasformando Torino nella fabbrica dei motori per eccellenza, capace di smuovere dalle regioni meridionali del Paese masse ingenti di migranti che venivano a trovare lavoro nel capoluogo piemontese, nella seconda metà degli anni Settanta la FIAT e le imprese grandi, piccole e medie del suo indotto cominciarono a evidenziare una situazione di crisi, dovuta al problema del costo elevato del petrolio che era stato determinato dai Paesi Arabi produttori. La direzione e il management della FIAT non seppero avviare una riconversione delle proprie utilitarie che avevano elevati consumi di carburante, mentre altri Paesi europei, soprattutto la Germania, avevano rimodernato le loro linee di prodotto delle auto con motori che richiedevano consumi minori: la fabbrica torinese perse così quote di mercato europeo e internazionale, entrando in una crisi profonda.

La risposta che la FIAT diede alla crisi fu di automatizzare tutte le linee di processo degli stabilimenti, stroncando così anche le lotte operaie e sindacali che negli anni avevano conquistato un forte potere contrattuale.

Furono gli anni della cassa integrazione, che crearono disagi economici, umani, sociali e psicologici a decine di migliaia di lavoratori che, usciti dalla FIAT e dalle fabbriche dell’indotto auto, pur godendo di una retribuzione dell’80% dello stipendio grazie all’ammortizzatore sociale della Cassa Integrazione Guadagni, cominciarono a vivere in condizioni di vulnerabilità sociale, anticamera della povertà che diventerà pervasiva negli anni successivi a seguito della delocalizzazione delle imprese dovute alla globalizzazione dell’economia e alla crisi del 2008.

L’Educatorio seppe recepire le nuove istanze che venivano dai soggetti fragili e deboli del contesto cittadino torinese grazie alle illuminate e avveniristiche intuizioni del nuovo Direttore Gaetano Baldacci, che ebbe il grande merito di restaurare i locali, grazie agli interventi filantropici delle Fondazioni bancarie cittadine, mettendo l’Educatorio in condizione di attivare e ospitare iniziative finalizzate a rispondere alle esigenze in particolare degli adolescenti e dei giovani, oltre che degli anziani, che, nel panorama del rischio di disagio da tossicodipendenza e tentazioni di devianza sociale i ragazzi, e di solitudine e isolamento sociale gli anziani, erano le punte emergenti di un disagio che interesserà successivamente altri soggetti sociali deboli che vedranno nell’Educatorio una risorsa per uscire dalla loro difficile condizione.

In buona sostanza Baldacci fece evolvere l’Educatorio da organizzatore di Scuole, ormai gestite a livello pubblico, fino a diventare un centro di aggregazione intergenerazionale, interculturale e interconfessionale e centro di servizi per la promozione della cultura.

Oggi l’Educatorio della Provvidenza, diventato Fondazione, oltre a confermare nelle sue linee di azione i valori educativi che ne fanno un punto di riferimento per tutta la città, si è trasformato ulteriormente, nella sua evoluzione, in un vero e proprio laboratorio di pensiero dando vita a un Centro di ascolto per persone di ogni età che si trovino in difficoltà e per portatori di disagio diffuso, come i poveri che sono stati destinatari del Progetto Officina Inventare Futuro, e per le donne migranti, per sostenere i quali utilizza i linguaggi delle cultura, della musica e dell’arte al fine di migliorare e ottimizzare la qualità della vita delle donne e uomini di ogni età che vengono accolti nelle iniziative realizzate per favorirne l’inclusione sociale.

Il futuro della Fondazione Educatorio della Provvidenza

Avendo ben presente la consistenza delle sue radici plurisecolari e indirizzando lo sguardo al suo prossimo futuro, la Fondazione Educatorio della Provvidenza intende oggi ricollocarsi nell’attuale contesto economico – sociale e culturale come Ente strutturale che, collaborando con centri di ricerca scientifica – in primis con la Scuola di Amministrazione Aziendale Unito – e con il Terzo Settore, operi per l’inclusione sociale e il miglioramento della qualità della vita di tutti i soggetti fragili che, nel territorio torinese, vivono condizioni di disagio economico, umano, psicologico e sociale.

L’attenzione posta nei confronti delle donne e degli uomini di ogni età che si trovano a vivere in situazione di fragilità e debolezza tiene conto della loro soggettività in una duplice dimensione: da un lato, ne considera i problemi, le criticità e ne individua le necessità e i bisogni.

Dall’altro, prende in grande considerazione le loro capacità, competenze, conoscenze, esperienze di vita, saperi e voglia di rimettersi in gioco – le capacitazioni per come sono state definite da Amartya Sen – per migliorare la propria condizione: perché solo a partire da questi elementi basilari e sostanziali delle loro vite, nascoste tra le pieghe di privazioni, sofferenze, ma ancora vitali a patto che si dia loro possibilità di emergere, possano avere una qualità delle vita migliore e realizzare i propri progetti di vita per se stessi, ma soprattutto per i loro figli.

Considerando la storia dell’evoluzione nel tempo dell’Educatorio della Provvidenza, diventato oggi Fondazione con lo stesso nome a sottolinearne la continuità di intenti, si rileva come l’azione di quella che fu fin dal XVIII secolo una delle più importanti istituzioni filantropiche di Torino ha agito secondo un paradigma che, rimodulando nei secoli le caratteristiche e l’agire filantropico, ha mantenuto la stessa struttura organizzativa di base e un modus operandi comune.

Il paradigma prevedeva – e prevede oggi – di prendersi cura di soggetti deboli della città, fornendo loro ospitalità, sussistenza, istruzione, educazione e anche opportunità di occupazione – elementi necessari e funzionali alla loro evoluzione e miglioramento della qualità della vita – per favorirne l’inclusione sociale, finalità principale dell’azione dell’istituzione filantropica dal giorno delle origini fino ai giorni nostri.
Poiché la capacità di modulare e rimodellare l’azione filantropica ha portato l’Educatorio a prendersi cura di diversi soggetti deboli, se all’origine furono le ragazze povere della società settecentesca, oggi, a trecento anni dalla sua fondazione, la celebrazione di questo traguardo prevede che il paradigma delle origini rimodelli la filantropia modulandola secondo i cambiamenti che le attuali condizioni economiche, sociali, culturali e le politiche di Welfare propongono agli Amministratori che proseguono l’operato della Fondazione secondo il paradigma originario, da attualizzare nei contenuti e nelle azioni finalizzate a prendersi cura dei soggetti deboli per favorirne l’inclusione sociale.

In particolare, gli interlocutori – collaboratori con i quali la Fondazione intende potenziare un rapporto già esistente negli ultimi lustri, ottimizzandolo e rinnovandolo in prospettiva futura, sono le Associazioni di Volontariato e gli altri componenti che fanno parte del Terzo Settore operando a favore di donne e uomini che vivono situazioni di disagio.

La complessità della società attuale, caratterizzata da grandi problemi, quali la povertà assoluta, relativa ed estrema, pone sfide epocali alle quali, se si vuole garantire l’inclusione sociale concreta e definitiva dei soggetti deboli, rendendoli protagonisti attivi del contesto in cui vivono, non si può rispondere con una semplificazione dei problemi e delle risposte che di fatto cristallizza, perpetuandolo, lo status quo, ma con risposte di alto profilo, che modifichino radicalmente gli approcci ai problemi e predispongano progetti e azioni innovativi in grado di offrire risposte adeguate in grado di migliorarne radicalmente la vita.
Pertanto, la sinergia che la Fondazione intende concretizzare in questa sua fase proiettata al futuro prevede interventi che portino un valore aggiunto al mondo del volontariato e al Terzo Settore, interpreti oggi di un nuovo tipo di filantropia affine a quello della Fondazione.

Interventi filantropici innovativi che tengano conto delle caratteristiche delle persone di cui ci si prende cura e del contesto in cui vivono, oltre che della evoluzione che il Welfare sta vivendo da interventi prevalentemente assistenziali verso nuove azioni di Welfare generativo, di comunità e della qualità della vita dei cittadini.

In questa logica di collaborazione sinergica con le Associazioni di volontariato e del Terzo Settore in generale, la Fondazione, col supporto scientifico della Scuola di Amministrazione Aziendale Unito, propone un approccio fondato sulla scienza che realizzi analisi statistiche e qualitative in merito alla condizione dei soggetti di cui si prende cura.

L’analisi tiene conto della soggettività delle persone in una duplice accezione: la sfera che pertiene ai loro problemi, ma soprattutto le loro capacitazioni secondo la logica e l’approccio di Sen.

L’analisi consente di attivare progetti su base scientifica che rappresentano una vera e propria innovazione strutturata e strategica perché permettono di creare sistemi riproducibili nei diversi contesti territoriali, non solo cittadini, una verifica costante finalizzata alla loro ottimizzazione, così da realizzare una innovazione continua a fronte delle trasformazioni che si verificano a livello economico e sociale e degli effetti di ricaduta sulla vita delle persone.

I progetti, che nascono dalle proposte delle persone di cui la ricerca scientifica evidenzia le caratteristiche e le capacitazioni, sono quindi strategici e strutturali per garantire risposte efficaci ai soggetti deboli.

La struttura muraria della Fondazione, la collaborazione con la Scuola di Amministrazione Aziendale Unito e gli interventi già attivati col Volontariato e quelli futuri fanno sì che prenda forma una Cittadella – Centro Ricerca e progettazione sociale che, grazie alle intelligenze collettive e connettive che si metteranno in campo, all’approccio scientifico e ai progetti originati dalle proposte delle persone di cui ci si prende cura, diventerà un punto di riferimento anche per quei cittadini, soprattutto giovani, che con una scelta profondamente etica, vorranno mettere a disposizione il proprio tempo, capacità e competenze per favorire l’inclusione sociale di ogni persona che vive ogni tipo di difficoltà.

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