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Segretario Generale di Fondazione Time2

SAMUELE PIGONI

“Dobbiamo cambiare il paradigma se non vogliamo raccogliere i pezzi rotti di una società che è stata lanciata alla velocità della luce, contro ogni forma di sostenibilità. Il primo impegno per contrastare le disuguaglianze deve essere di carattere culturale, poi vengono i servizi e la solidarietà sociale”

Samuele Pigoni è Segretario Generale di Time2, la Fondazione torinese impegnata a favore del “cambiamento verso una società più accogliente, capace di riconoscere la bellezza delle differenze e il valore di ogni persona, con e senza disabilità”. Di formazione filosofica, è esperto di design strategico delle organizzazioni, management del Terzo Settore e progettazione sociale. Cura la rubrica Filosofia e società per la rivista “Confronti”. È in formazione come consuelor sistemico presso l’Istituto Change di Torino.

Come agisce la filantropia rispetto all’inclusione dei soggetti più deboli della società?

Nel nostro Paese, la filantropia promuove iniziative volte a contrastare tutte le forme di marginalizzazione sociale e di povertà, soprattutto a partire dalle realtà periferiche più complesse. Non credo ci siano settori o problematiche non presidiate, e la ricchezza delle realtà che se ne occupano risiede anche nelle modalità molto diverse con le quali vengono proposti sostegni o soluzioni. Tale diversità è anche portata dalla disomogeneità dei territori e dei sistemi di welfare. Se proviamo a identificare qualche tratto in comune, possiamo individuarne due: da un lato, favorire l’attivazione delle reti territoriali; dall’altro, promuovere la partecipazione diretta delle persone che accedono ai servizi. Si sta cercando di superare, un po’ in tutti gli ambiti, la prospettiva assistenzialistica e paternalista. Non è facile nel nostro Paese, che ha una lunga tradizione in tal senso, ma la strada è segnata, anche grazie agli orientamenti che arrivano dall’Europa.

Quali sono le persone di cui la vostra Associazione si prende cura?

Lavoriamo al fianco di giovani con disabilità nella fase di passaggio alla vita adulta e nell’ottica dei diritti e della vita indipendente. Crediamo fermamente che la condizione di disabilità vada affrontata a partire da una prospettiva culturale: i tempi sono maturi per rispondere in modo concreto all’esigenza di pieni diritti di cittadinanza e partecipazione da parte di tutti. Ciò significa impegnare i contesti nel predisporre i sostegni necessari alla inclusione delle persone con disabilità, a prescindere da quale essa sia.

Quali sono gli interventi che realizzate?

La Fondazione Time2 ha una strategia ibrida: sia operativa che erogativa. Sul piano operativo, ci occupiamo di sport unificato (squadre composte sia da giovani con disabilità che senza), tempo libero e vacanze in autonomia, offerta di percorsi di empowerment in gruppo sia per giovani che genitori. Sul piano erogativo, collaboriamo con organizzazioni, che normalmente non si occupano di disabilità, affinché si dotino, sotto il profilo operativo e strategico, di tutti quei dispositivi materiali e immateriali necessari a offrire la piena accessibilità ai propri luoghi e progetti. Inoltre lavoriamo a una prospettiva di cambiamento culturale: dobbiamo superare la premessa, più o meno consapevole, per la quale esiste un cittadino “tipo” che è abile, autonomo e indipendente dotato di tutti i diritti e poi altri cittadini non abili, non autonomi e impossibilitati all’indipendenza che hanno solo qualche diritto e per i quali dobbiamo fare cose “speciali”.

Visti dal suo osservatorio personale e professionale, quali sono oggi i nuovi bisogni di inclusione a cui la comunità di Torino, e non solo, deve rispondere?

Mi piacerebbe che la Città si contaminasse e il centro fosse meno separato dalle periferie. Credo che questo si potrebbe superare con una politica dei luoghi che apra le porte a gruppi di giovani, favorendone l’autorganizzazione e la promozione di iniziative non solo orientate da logiche commerciali. Dico questo perché ho fiducia nel fatto che, sui temi di cui stiamo parlando, i giovani siano un passo avanti rispetto alle Istituzioni e al mondo adulto. Per larga parte della popolazione giovanile, le diversità sono un fatto indiscutibile e non un ‘problema’ da affrontare. L’altro grande asse su cui si dovrebbe lavorare per un’inclusione reale delle persone è il lavoro. Come faccio a sentirmi incluso, se non ho certezza del mio futuro da un punto di vista economico? Credo che tanti discorsi e atteggiamenti “esclusivi” nascano proprio da un senso di precarietà e incertezza faticose da sostenere e generative di rancore sociale.

Che cosa serve oggi per combattere fragilità, povertà e incertezze? In che modo una società può essere più coesa e competitiva per combattere le disuguaglianze?

Una società più competitiva nel combattere le disuguaglianze è una società meno competitiva. Partiamo da qui. Non possiamo credere alla fantasia che una società basata sulla performance sia per tutti. È impossibile. Dobbiamo cambiare paradigma, se non vogliamo passare il tempo a raccogliere i pezzi rotti di una società che è stata lanciata alla velocità della luce, senza preoccuparsi di quanto questo sia sostenibile. Il primo impegno deve essere di carattere culturale, poi viene la questione dei servizi e della solidarietà sociale. Centralizzando sempre più i servizi e organizzandoli sulla base di criteri di ottimizzazione economica, i territori si svuotano e le persone si sentono sempre più sole e marginalizzate. In sintesi, per contrastare le disuguaglianze servono cultura, lavoro e servizi.