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Ceo piattaforma Mygrants

CHRIS RICHMOND N’ZI

“È dalla somma di tutte le unicità che provengono la complessità, l’integrazione, la bellezza e la forza delle comunità nel loro insieme”

Dal 2017, la piattaforma digitale Mygrants, creata da Chris Richmond N’zi, fornisce formazione, orientamento e possibilità lavorative a chi arriva in Italia, spesso senza nemmeno conoscere la lingua, o a chi si trova in situazioni di disagio sociale. Come startup che mette in luce e a sistema i talenti e i profili di ciascuno con il fabbisogno occupazionale delle imprese, Mygrants consente alle aziende di operare una selezione sulla base di criteri oggettivi. Una concreta opportunità di inclusione e di integrazione per ripartire da quel che si sa fare e partecipare alla vita e alla crescita socio-economica della comunità.

Com’è nata l’idea di mettere insieme i temi dell’inclusione sociale e dell’accoglienza con il tema dell’innovazione digitale?

L’innovazione ha un ruolo primario in tutti i settori della nostra vita. In alcuni, la trasformazione digitale ha avuto sicuramente un impatto maggiore, come per esempio in quello bancario e finanziario; in altri, come il sistema educativo e il Terzo Settore, sono state opposte molte resistenze al cambiamento. Noi, invece, riteniamo che l’innovazione digitale rappresenti un’opportunità anche in campo sociale. Nasce da qui la piattaforma Mygrants.

Cosa significa per lei il termine inclusione?

Inclusione è un termine di cui forse oggi si abusa, soprattutto quando viene associato all’idea di diversità legate all’aspetto esteriore o al genere. Ma la diversità è davvero un concetto che racchiude tanti elementi. Da tempo sostengo che si debba parlare di inclusione soprattutto in relazione all’unicità, alle tante unicità individuali che rappresentano il “super potere” di ciascuno all’interno di una comunità. Inclusione per me significa fare in modo che soggetti diversi possano essere parte di un tutt’uno, perché la loro diversità è la loro unicità. È dalla somma di tutte le unicità che provengono la complessità, la bellezza e la forza della comunità nel suo insieme.

Noi con il nostro lavoro ci occupiamo di fare in modo che nei processi di selezione delle aziende si accolga sempre di più la diversità, nel senso della multiculturalità, affinché le realtà imprenditoriali possano prendere in considerazione profili di cittadini migranti che corrispondano al loro fabbisogno occupazionale. Per questo ci avvaliamo dello strumento digitale per mettere a disposizione delle aziende competenze validate e aggiornate, mentre evitiamo di condividere informazioni personali e sensibili, in quanto non rilevanti alla selezione.

L’integrazione delle persone migranti è un valore sociale, ma rappresenta anche un fattore economico?
Ritengo di sì. Soprattutto se la guardiamo in prospettiva, la migrazione può essere davvero una soluzione sul piano degli equilibri sociali ed economici. Pensiamo, ad esempio, all’attuale composizione demografica dell’Italia: con una popolazione molto anziana, un tasso di natalità negativo e un alto tasso di emigrazione, la curva della percentuale di persone in età lavorativa è decisamente in caduta libera. Un gap che non mancherà di produrre conseguenze, ma che può essere colmato da giovani provenienti da Paesi terzi con competenze che possono essere inserite nel nostro mercato del lavoro. La migrazione dunque può essere una opportunità di crescita economica, ma anche di sostenibilità sociale per l’intero sistema Paese.

Dal suo osservatorio professionale, quali sono i nuovi bisogni di inclusione a cui la comunità deve rispondere?

Siamo ancora legati al concetto di identità, come fattore che deriva dall’appartenenza a un territorio circoscritto, reale o culturale che sia. Vogliamo sempre creare categorie sulla base delle quali differenziarci. Tutto questo rende difficile parlare di inclusione in generale. In questo senso, credo davvero che il digitale possa azzerare molte barriere e possa rendere “liquidi” i talenti, indipendentemente dalla loro provenienza. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando molte persone hanno colto opportunità che prima non semplicemente c’erano, in virtù del ruolo che ha assunto il digitale. Purtroppo oggi, per come pensiamo e come agiamo, non siamo pronti per lavorare seriamente su inclusione e diversità. Eppure, come dicevo prima, basterebbe guardare la diversità come unicità.

Il concetto di diversità, nella sua accezione negativa, crea invece disuguaglianza. Ritiene che un’iniziativa come la vostra possa davvero contribuire a superarla?

Sono convinto di sì. Al principio, noi abbiamo pensato a una soluzione che fosse utile per un target specifico: i migranti e/o richiedenti asilo. A un certo punto, abbiamo deciso di sperimentare lo stesso strumento per un target diverso: giovani italiani con rischio educativo nella provincia autonoma di Trento. Abbiamo così creato due luoghi diversi, all’inizio separati: Mygrants, rivolto ai migranti, e LoSo, rivolto ai cittadini italiani. I dati che analizzeremo su Mygrants e su LoSo ci permetteranno quindi di capire come possiamo creare davvero inclusione nel mondo del lavoro. Si tratta in sostanza di due biforcazioni, che convergono nello scopo comune, ovvero il collocamento lavorativo. La scelta delle aziende, infatti, quando cercheranno uno specifico profilo professionale, potrà fondarsi esclusivamente sulle competenze, e potrà così cadere indifferentemente sia su un migrante sia su un italiano.

Spesso, chi si trova in situazioni di difficoltà non conosce i propri diritti e i servizi che possono garantirli. Lo strumento digitale che avete ideato può essere esteso ad altre situazioni di disagio?

Su Mygrants abbiamo creato una sezione dedicata all’informazione, che riguarda il funzionamento del sistema di asilo e la protezione internazionale e dà gli strumenti per un primo orientamento sul territorio. Se la tipologia di fruizione permette di fornire contenuti rilevanti aggiornati, in multilingua, allora si può sempre replicare un sistema simile al nostro.

In che modo la società può essere più coesa nel combattere le disuguaglianze?

Quando si fa impresa, c’è sempre una componente sociale, perché si risponde a una necessità e si genera un beneficio comune. Quello che davvero serve è promuovere un sempre maggiore spirito di iniziativa imprenditoriale, che vuol dire essere capaci di individuare problemi e di elaborare soluzioni concrete, la cui efficacia risiede proprio nella creazione di benefici soprattutto per le altre persone. Questo è il più autentico obiettivo di un sistema imprenditoriale sano. Se lo capiremo, quello straordinario meccanismo di cooperazione e supporto a cui si riesce a dare vita nei momenti di enorme difficoltà, come ci hanno mostrato la pandemia, le alluvioni e altre situazioni drammatiche, potrà finalmente diventare prassi concreta e modello virtuoso per tutto il Terzo Settore.