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Responsabile del Centro di ascolto Le Due Tuniche della Caritas diocesana di Torino

WALLY FALCHI

“Occorre costruire una vera e propria rete di lavoro per una co-progettazione efficace capace di assicurare tutti i servizi necessari, molti dei quali devono essere garantiti dallo Stato e non possono essere demandati soltanto al volontariato”

Una vita dedicata ad aiutare gli altri, a partire dalle ragazze vittime di violenza più di trenta anni fa, Wally Falchi è da molto tempo responsabile del Centro d’ascolto Le Due Tuniche e membro del Consiglio Direttivo di Vol.To. Con un’idea molto chiara su che cosa vuol dire concretamente inclusione, in una società in cui la pandemia ha aggravato disuguaglianza e solitudine.

Quali sono le esperienze di inclusione sociale che come Caritas state perseguendo?

Oltre all’aiuto diretto noi ci occupiamo di più ambiti. Il primo è quello dei detenuti: andiamo in carcere, facciamo colloqui e avviamo dei progetti sia di volontariato restitutivo che di inserimento lavorativo. Spesso ci rivolgiamo a persone con una lunga detenzione in carcere, proponendo attività di volontariato che permettano loro di sottostare a regole e relazionarsi con soggetti non detenuti, così da riacquisire quelle competenze minime necessarie per reinserirsi nel mondo del lavoro. Sono tutti progetti di inclusione, che mirano a evitare che, una volta scontata la pena, queste persone possano ricadere nella devianza.
Ci occupiamo, poi, di famiglie in attesa dell’assegnazione di una casa popolare, con strutture diversificate dove le accogliamo e, coadiuvati da un accompagnamento abitativo, le aiutiamo nella gestione economica della casa. Un altro aspetto che trattiamo, grazie anche all’aiuto di studenti universitari, è la povertà educativa e la necessaria inclusione dei bambini. In questo caso, diventa importante la quotidianità, l’essere consapevoli di avere qualcuno a fianco.

Altra categoria a cui ci rivolgiamo sono i padri separati in difficoltà, per aiutarli a coltivare il rapporto con i propri figli, fornendo loro degli spazi idonei dove possano trascorrere insieme del tempo.

Un progetto importante, poi, è Agrisister, che consiste nel fornire un percorso di accoglienza temporanea in coabitazione per persone senza dimora e anziani, così da evitare che finiscano in un dormitorio. Durante la coabitazione, forniamo loro un terreno da coltivare e dove producono miele, frutta e verdura, di cui una parte viene portata nelle housing dove si trovano altre famiglie. Sono tutte attività accompagnate da progetti di inclusione che sono indirizzati alla fase di uscita, ovvero al reinserimento in società.
Nonostante non sia propriamente un tema delle Caritas, ci occupiamo anche di reinserimenti lavorativi, perché restare attivi è fondamentale per la salute psico-fisica dell’individuo. Riusciamo in questo modo a restituire autonomia e dignità alle persone, evitando che cadano in depressione. Anche questo per noi significa inclusione. Così come un semplice ma significativo progetto di inclusione è stato quello condotto insieme al Centro per l’impiego di Torino, con cui abbiamo selezionato un gruppo di persone per permettere loro di prendere la patente di guida. La nostra azione non trascura le persone anziane, di cui invece i più si stanno dimenticando: molte, infatti, non riescono ad andare avanti o a curarsi se rapportiamo le loro pensioni al costo della vita e alle bollette da pagare. I progetti di inclusione non possono essere solo relativi alla lotta alla solitudine, devono tenere conto anche del grosso problema della povertà economica. Il nostro lavoro da solo non può essere sufficiente: è necessario un sistema politico che faccia una sintesi, dall’analisi dei bisogni alle risposte da offrire.
Negli ultimi mesi, per esempio, abbiamo dovuto seguire anche persone scappate dall’Ucraina: alcune sono nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) con vitto e alloggio, ma ai bambini che non hanno potuto frequentare la scuola stiamo pensando noi con la Comunità di Sant’Egidio.

Alla luce di tutte queste esperienze, cosa significa per lei inclusione?

L’inclusione è un concetto che richiama l’integrazione, nel senso di accompagnamento della persona, non dimenticandoci mai la lotta alla solitudine, che consiste in primo luogo nel trasmettere la consapevolezza che c’è sempre qualcuno accanto a te, che cerca di sorreggerti e affiancarti. Poi si tratta anche di aiutare a trovare un posto di lavoro.

Quali sono i nuovi bisogni di inclusione a cui la comunità di Torino deve rispondere e in che modo lo può fare?

Una problematica, che non ho affrontato prima, è quella relativa alla difficoltà che incontrano i genitori che hanno figli con disabilità, una questione su cui l’Italia è ancora molto carente. Non dimentichiamoci che, da questo punto di vista, il Covid ha causato uno sfacelo totale, provocando una regressione e una chiusura di questi ragazzi, che non hanno avuto la possibilità di svolgere in maniera completa ed efficiente la didattica a distanza. Si tratta di un aspetto, non strettamente economico, di cui lo Stato non si occupa a sufficienza. L’inclusione non può prescindere dalle persone disabili e sostenerle in tutto, a partire dalla costruzione di scivoli all’interno di una città. Allo stesso tempo, però, non bisogna lasciare sole le famiglie e assicurare loro delle garanzie: non è possibile che ci siano persone costrette a licenziarsi per seguire i figli disabili. Anzi, sono convinta che i progetti di inclusione dovrebbero passare attraverso una terminologia differente, andando a intervenire in aiuto semplicemente di coloro che definiamo poveri, eliminando distinzioni legate allo status di persona malata, detenuta o immigrata. In base a questo approccio, da cui però siamo ancora lontani, vorremmo che l’attenzione si potesse rivolgere anche verso le nuove fasce di povertà, emerse con la pandemia, fatte di lavoratori, impiegati, commercianti, stagionali, cassintegrati, che si ritrovano all’improvviso in difficoltà.

Secondo lei, un sistema sociale come il nostro come si dovrebbe attrezzare per diventare più coeso e combattere le disuguaglianze?

Indubbiamente è una questione di risorse, e la politica deve fare un passo in avanti, superando le differenze partitiche. Occorre costruire una vera e propria rete di lavoro per una co-progettazione effettiva capace di assicurare tutta una serie di servizi, molti dei quali devono essere garantiti dallo Stato e non possono essere demandati soltanto al volontariato, come invece sta succedendo adesso. Questo passaggio, che non può prescindere da uno stretto contatto con il Governo, è fondamentale per andare avanti con una strategia d’azione. Il volontariato può sopperire nell’immediato e fare da tampone, ma non più di questo. Pensiamo alle persone senza dimora, in situazioni di fragilità o con problemi psichiatrici che si trovano nei dormitori: nel momento in cui arriva l’assegnazione di una casa popolare la loro situazione paradossalmente peggiora perché non sono più presenti i volontari che le supportano. La casa è un diritto di tutti, ma forse potremmo trovare forme e soluzioni nuove, come delle coabitazioni con camere indipendenti e la cucina in comune, a cui aggiungere la presenza di volontari. Questo è soltanto un esempio tra i tanti. Potrei citare i progetti di inclusione che si attivano per gli inserimenti lavorativi dei disabili, che possono incontrare problemi di varia natura. Il volontariato c’è e si impegna, ma senza un aiuto da parte della politica noi saremo sempre in difficoltà.