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Presidente CasaOz ETS

ENRICA BARICCO

“La diversità è una ricchezza.
Inclusione della diversità significa accedere a un potenziale capitale umano a cui non dobbiamo e non possiamo rinunciare”

L’Associazione CasaOz Onlus nasce nel 2005 da un gruppo di persone di Torino che scelgono di mettersi a disposizione delle famiglie in cui vi sia un bambino malato. Dal 2010 CasaOz trova la sua nuova sede in Corso Moncalieri 262: un spazio per giocare e lavorare, una ‘casa’, appunto, costruita col contributo di Enel Cuore e con la collaborazione di varie istituzioni, aziende, fondazioni e privati, su un terreno messo a disposizione dal Comune di Torino. Socializzazione, attività ludico-creative, studio, disegno: sono alcune delle opportunità a disposizione dei bambini che frequentano CasaOz, mentre mamme e papà trovano aiuti come il sostegno residenziale e l’accompagnamento alle risorse disponibili sul territorio. Enrica Baricco, presidente di CasaOZ, racconta cosa significa essere “quotidianità che cura”, secondo il claim che da sempre ispira l’attività della onlus

Cosa significa per lei il termine inclusione?

Ricondurrei il termine inclusione alla necessità di coinvolgere qualsiasi persona nelle attività che riguardano la nostra società e, insieme, al dovere, etico ma anche umano, di rispettare il diritto di ciascuno nonostante le sue difficoltà. In sintesi, inclusione è far sì che tutti abbiano le stesse possibilità. In questo senso, credo si possa affermare che una società inclusiva sia una delle nostre risorse maggiori in termini di creazione di nuove competenze e di possibilità di avere una pluralità di punti di vista diversi, cosi da sconfiggere l’individualismo che spesso ci circonda. Conoscendo il tessuto sociale urbano contemporaneo, posso dire con certezza che luoghi come CasaOz, dove si è quotidianamente a contatto con persone che hanno diverse difficoltà e per le quali è importante essere insieme e partecipare alle attività di tutti i giorni, sono non solo necessari ma essenziali. Sappiamo che purtroppo le persone che hanno bisogno di realtà come la nostra non riescono a reagire alle difficoltà della vita, quali la malattia, la povertà, o la solitudine. Come accade a molte mamme. Tutto questo provoca un grande isolamento: il vero nemico contro cui combattiamo ogni giorno. Vorrei aggiungere che l’inclusione deve essere considerata un valore molto importante non solo pensando alle persone più in difficoltà, ma anche a quelle che vengono da altre parti del mondo: la diversità è una ricchezza e l’inclusione della diversità significa accedere a un potenziale capitale umano a cui non dobbiamo e non possiamo rinunciare.

Lei ha parlato di fare le cose insieme, la cui semantica viene racchiusa da due parole molto di moda negli ultimi anni, ossia coesione e comunità. Che cosa significa per lei la parola comunità?

Intanto ricordiamo che gli ultimi due anni di pandemia hanno peggiorato il senso di isolamento, soprattutto per i più giovani, i quali sempre più spesso incontrano difficoltà a confrontarsi con gli altri. Il Covid ha amplificato le distanze e le solitudini e sembra che non si riesca più a trovare quel filo che ci permette di riprendere i rapporti, lo scambio con le persone. Questo è un grosso problema. Come abbiamo detto, la comunità è una ricchezza, tutti devono riuscire a trovare il proprio posto nello scambio con gli altri: quello che noi cerchiamo di fare, grazie a CasaOz, è creare luoghi e occasioni che possano facilitare questo scambio, che possano aiutare a vincere la solitudine e un ritiro sociale a causa dei quali i ragazzi adolescenti stanno soffrendo.

Si tratta di un fenomeno, che già da anni è presente, ma che è esploso con la pandemia, andando in senso opposto a quel recupero del senso di comunità di cui stavamo parlando. Anche la povertà ha giocato un ruolo decisivo: molte persone appartenenti ai ceti medio-bassi sono passati dall’avere una vita normale a vivere per la strada. Credo, dunque, che il centro del nostro lavoro nei prossimi anni sarà ancora più focalizzato sulla necessità di non lasciare le persone sole – ragazzi e adulti – e sulla creazione di una comunità che dia a ciascuno i mezzi per reagire.

Ritiene che ci siano ancora mondi che tendono a tenere fuori?

Sicuramente partirei dal mondo della politica, la cura della polis, della nostra società. Io credo che le politiche pubbliche siano – in termini di linguaggio e di persone – lontane dai giovani, che spesso si sentono tenuti fuori da questo mondo. È vero che si parla spessissimo di inclusione, ma vediamo che nei luoghi in cui viviamo ci sono molti ostacoli: basti pensare ai problemi di accessibilità di una città o di una azienda. Sarebbe quindi importante partire da una prima inclusione di tipo meramente materiale, per poi passare a una più profonda inclusione di pensiero e di valori che le nuove generazioni portano con sé, di accelerazioni di mondi che potrebbero essere aiutati e che invece vengono tenuti fuori.

L’inclusione è dunque un termine molto utilizzato, direi abusato, nella teoria: ma nei fatti, nella realtà che viviamo, è veramente scarsa. D’altronde non possiamo fare altro che considerare l’inclusione come un qualcosa che va di pari passo con l’innovazione del pensiero, cosi che possa diventare sostanziale nelle cose che facciamo.

L’inclusione come fattore che rende la società più ricca e più competitiva: è così?

Assolutamente sì, siamo però ancora lontani da questo. Noi abbiamo molti rapporti con il mondo corporate, che poi è il mondo produttivo del Paese e dovrebbe essere connesso con la realtà che ci circonda. Sembra sempre, però, che l’inclusione si riferisca solamente a coloro che si occupano di persone fragili. Ma non è così: l’inclusione è un principio fondamentale per tutti, anche per il settore produttivo di questo Paese.
Purtroppo, il contatto con mondi come i nostri, che stanno diventando sempre più imprenditoriali, è ancora molto lontano da quelle che sono le possibilità di sviluppo lavorative delle nuove generazioni. Mi riferisco al mondo del Terzo Settore, considerato ancora troppo di nicchia. Sarebbe invece necessario che quello che facciamo fosse percepito indispensabile per la società.

La risposta pubblica ai principi di inclusione è offerta dai servizi sociali. La stessa definizione implica forse un processo di esclusione?

Partirei da un esempio: quando noi, nel 2014, abbiamo aperto i MagazziniOz, una cooperativa sociale, volevamo mettere insieme la parte profit che questo luogo avrebbe avuto – cioè il fatto di essere inserito sul mercato – e la sua finalità sociale. Questo è utile per far conoscere CasaOz alle persone che lo frequentano, permettendo allo stesso tempo a ragazzi svantaggiati di seguire un percorso lavorativo riconosciuto a tutti gli effetti. Quando si è trattato di dare un nome a questa nostra esperienza dei MagazziniOz, abbiamo coniato, nel 2014, “Utile per il sociale”, laddove il termine “utile” era inteso in una doppia valenza, facendo riferimento anche alla possibilità di cambiare. Dopo quattro anni abbiamo deciso di eliminare la denominazione “sociale”, in quanto questo termine dava luogo a pregiudizi negativi, scoraggiando dal frequentare i MagazziniOz. In questo senso, credo che una delle funzioni delle istituzioni e della politica, sia quella di aiutare e cambiare la percezione che hanno le persone nei confronti delle nostre attività, anche perché il Paese avrà sempre più bisogno di esperienze e di modelli come il nostro. Sarebbe necessario, dunque, che le Amministrazioni fornissero un aiuto maggiore a chi opera nel Terzo Settore: città come Torino hanno avuto negli anni la capacità di costruire progetti ambiziosi, che dovrebbero essere un faro per l’intero territorio italiano.