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COORDINATORE ITALIANO DELLA CAMPAGNA GLOBALE PER L’EDUCAZIONE, GIà PRESIDENTE DI AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA

EMANUELE RUSSO

“Quello che Amnesty International ha potuto verificare a livello globale riguarda l’espressione del dissenso: riteniamo di essere di fronte a un peggioramento sistematico, significativo e generalizzato degli istituti democratici di tutto il mondo”

Già Presidente di Amnesty International, Emanuele ha collaborato con il Segretariato Internazionale e le sezioni dell’associazione in diversi Paesi, occupandosi di educazione ai diritti umani. Impegnato nel campo dell’educazione alla cittadinanza globale con C.I.F.A. ETS, è anche coordinatore della Campagna Globale per l’Educazione in Italia (GCE Italia).

Dal suo osservatorio professionale, in che modo una società può diventare più coesa e combattere le disuguaglianze?

Secondo Amnesty, è necessario soprattutto avere la percezione e la consapevolezza di far parte di una realtà complessa, in cui i problemi non possono essere affrontati da un solo punto di vista. Amnesty lo ha imparato quando ha ampliato il suo sguardo, smettendo di occuparsi solamente di libertà e diritti civili e iniziando a occuparsi anche di tutti i diritti umani. È così che ci siamo resi conto dell’esistenza di organizzazioni diverse, presenti sul territorio da molto più tempo, con cui si poteva lavorare di concerto per portare cambiamenti più duraturi.

Quindi Amnesty, essendo molto grande, ha anche delle declinazioni a livello territoriale?

Amnesty è strutturata con una sezione nazionale a Roma – che conta uno staff di circa sessanta persone -, quindici realtà regionali e, infine, realtà ancora più piccole – i gruppi locali o le “antenne”. A questo si aggiungono altre strutture di livello nazionale che accolgono i volontari e si servono di expertise, in relazione a determinati temi o a determinati Paesi, detti “coordinamenti”, suddivisi per area geografica o tema specifico, e le “task force”, che si occupano di temi come il contrasto al discorso d’odio e la tutela del diritto di protesta.

Quali sono i bisogni di inclusione a cui oggi dobbiamo rispondere?

Quello che Amnesty ha potuto verificare a livello globale è l’esistenza di una situazione sempre più delicata per quanto riguarda l’espressione del dissenso. Da qui nasce il lancio di una campagna globale, chiamata “Io proteggo la protesta”, poiché riteniamo di essere di fronte a un peggioramento sistematico, significativo e generalizzato degli istituti democratici ovunque nel mondo. Altra evidenza, più specificamente italiana, è che, a seguito della pandemia, intere fasce della popolazione sono state abbandonate a loro stesse. Abbiamo prodotto un’inchiesta sugli anziani che hanno subito particolari discriminazioni rispetto all’approccio dell’”andrà tutto bene”. Sempre durante la pandemia, Amnesty ha fatto delle ricerche relative al personale sanitario in Spagna, e sulle violenze domestiche, raddoppiate o addirittura triplicate, in altri Paesi. Nei momenti in cui si impedisce alla società civile di potersi esprimere, anche tutta un’altra serie di diritti economici e sociali viene progressivamente meno.

Un altro tema su cui Amnesty lavora è il rapporto problematico che esiste con le persone migranti. A livello globale, gestire deliberatamente la migrazione come un’emergenza vuol dire non affrontare il fatto che le ragioni dell’immigrazione sono sempre più sistemiche, perché legate ai cambiamenti climatici, alle differenze economiche, allo sfruttamento delle risorse naturali.

C’è anche un’altra categoria di persone, che sta vedendo peggiorare la propria situazione: mi riferisco alle persone LGBTQ+. Non riteniamo che semplicemente si stia ritornando indietro sul piano dei diritti civili, pensiamo che ci stiamo davvero distaccando dal sistema democratico di tutela dei diritti umani. I nuovi politici che hanno successo in questi anni non intendono tornare a un’epoca “pre”, vogliono lasciar perdere quello che si è conquistato dal 1948 in poi e andare verso una forma di autoritarismo. Un’azione che non ci sta portando indietro, ma piuttosto in un’altra dimensione. Anche di questo è complice il cambiamento climatico, nel sottrarci le risorse che ci servono per vivere. Si tratta di un punto di non ritorno: continuare a guardare indietro, pensando che si debba evitare di tornare ai giorni bui, significa non capire il cambiamento che stiamo affrontando in questo momento.

Che cosa serve per combattere povertà e fragilità? Si tratta di un discorso di sistema che parte dall’alto?

Non solo. Faccio un esempio: nel 2020 quando eravamo tutti chiusi in casa abbiamo proposto una campagna dal titolo “Nessuno escluso”, orientata a mettere in evidenza le categorie non prese in considerazione dai decreti governativi. Ci siamo resi conto che il problema vero era fornire aiuti concreti alle categorie più vulnerabili. Amnesty non ha mai fatto questo tipo di intervento, perché non è un’organizzazione umanitaria ma un’organizzazione politica. Allo stesso tempo, però, in quel momento abbiamo capito che non potevamo limitarci a dire che non era un nostro compito e, per la prima volta nella nostra storia, Amnesty Italia ha lanciato un bando per organizzazioni più piccole che si occupano di queste cose, affinché tutta una serie di aiuti potessero arrivare a destinazione.

Lo racconto per dire che il momento richiede che il lavoro venga concertato in modo sistematico, organizzandosi all’interno di una co-progettazione che abbia obiettivi chiari e precisi, oltre a una chiara divisione dei ruoli. In questo momento è necessario superare il ragionamento identitario: un’organizzazione non deve passare la maggior parte del suo tempo a trovare modalità per esprimere sé stessa attraverso le proprie azioni, deve piuttosto trovare modalità per risolvere i problemi portando la propria peculiarità. Essere divisi in tante realtà ha un senso nel momento in cui questa differenza si nutre di competenze, se la differenza è solo nelle parole non serve a nulla.

Qual è stata l’esperienza personale di inclusione che l’ha particolarmente colpita?

Si tratta di un’attività che ho svolto non all’interno di Amnesty, ma di un’altra organizzazione, chiamata C.I.F.A.: nell’ultimo anno e mezzo abbiamo lavorato su un progetto educativo importante, indirizzato alla costruzione di una piattaforma di contrasto all’odio on line. Collaborando con una nuova realtà sul territorio torinese, chiamata “Yalla Aurora” e promossa dall’Associazione Islamica della Alpi, abbiamo provato a coinvolgere i giovani che ne fanno parte con un tipo di proposta più concreta e politica per spiegare loro le dinamiche che spingono ai discorsi d’odio sui social network e costruire così modalità innovative per contrastarle, senza ripiegare sulle contro-narrazioni e l’analisi linguistica. In questo senso, noi pensiamo di andare a colmare un gap tra l’organizzazione italiana, che svolge la propria attività a livello istituzionale all’interno della scuola, e l’organizzazione religiosa, formata da persone con background migratorio, che sicuramente si trova etichettata all’interno del proprio contesto.

Cosa significa per lei il termine inclusione?

Inclusione significa vivere insieme, condividere un progetto comune. Inclusione in una città significa vivere tutti nello stesso territorio, che dunque deve essere sufficientemente vivibile, pulito, salubre e sostenibile dal punto di vista economico e sociale. Quello che altera la capacità di vivere tutti insieme altera l’inclusione.