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Segretario Generale di Assifero

MAX CASACCI

“La musica è uno strumento di aggregazione efficacissimo.
I luoghi della musica azzerano le barriere di censo e provenienza.
A volte anche quelle generazionali. Di fronte alla musica siamo tutti uguali”

Musicista, produttore, autore di musica e testi, ingegnere del suono e sperimentatore, Max Casacci, chitarrista e fondatore dei Subsonica, una delle band più importanti della musica italiana degli ultimi decenni, è stato presidente e condirettore del Traffic Torino Free Festival e continua a occuparsi di progettazione culturale, con un’attenzione particolare ai temi dell’inclusione come tratto del suo impegno civico e artistico. Perché “l’inclusione è soprattutto una questione culturale”. E il mondo della musica, naturalmente attivo, creativo, comunicativo e resiliente, può partecipare in modo concreto ai processi di trasformazione della Città e di creazione della Comunità.

Una sua personale definizione di inclusione.

L’inclusione è un coefficiente di appartenenza capace di determinare la percezione di un luogo, di un perimetro sociale, di uno spazio di vita. Ci si può sentire “esclusi” da barriere di pregiudizio, di stato sociale, di accesso a beni di consumo in un momento di generale benessere, e, viceversa, “inclusi” in momenti di crisi economica vissuti in luoghi capaci di mantenere spazi aperti di aggregazione. L’inclusione è, prevalentemente, una questione culturale.

In che modo la musica può essere uno strumento capace di diminuire le disuguaglianze e aumentare la coesione tra persone anche molto diverse?

La musica è uno strumento di aggregazione efficacissimo, soprattutto in ambito giovanile. I luoghi della musica azzerano le barriere di censo e provenienza. A volte anche quelle generazionali. Vale per chi la musica la pratica, ma anche e soprattutto per chi la frequenta. Le narrazioni create dalle culture musicali spostano completamente le barriere tra chi è dentro e chi è fuori. I confini diventano perimetri di appartenenza culturale, che non ricalcano le classificazioni sociali del mondo reale. A titolo di esempio, ricordo scene e stagioni musicali durante le quali i ragazzi più agiati si sarebbero trovati in imbarazzo a ostentare i simboli, altrove esibiti come tratti elitari, del proprio privilegio, preferendo apparire in sintonia con tutti gli altri coetanei. Sono aspetti che raramente vengono presi in considerazione nelle analisi più diffuse, ma finiscono per essere fondamentali nella costruzione di un senso di comunità.

La musica potrà continuare ad avere anche in futuro un potere inclusivo?

Perché musica e culture giovanili che intorno ad essa ruotano, continuino a svolgere fisiologicamente questa importante funzione, è necessario mantenere alta l’attenzione sui luoghi e sulla qualità delle proposte che i territori sono in grado esprimere. Nella nostra città, oggi, scarseggiano gli spazi per i più giovani. Esiste una proposta commerciale diffusa di alcol a basso costo ed esistono zone di bivacco sociale, ma a fronte di un livello altissimo di proposta culturale, che Torino è ancora oggi in grado di esprimere (festival, iniziative, reti spontanee che vedono protagonisti molti giovani), non esistono più quegli aggregatori naturali, capaci di diffondere e includere in tempo reale.
Può sembrare una provocazione, in realtà è un puro dato di fatto: oggi ci sono centri sociali autogestiti e spazi occupati che offrono occasioni di inclusione culturale maggiori che nel resto della città.
Poi ci sono club e locali di alta qualità, che hanno sofferto moltissimo durante la pandemia, e che rappresentano una grande risorsa perché stanno tentando di coinvolgere le generazioni più giovani. Sono queste le realtà da supportare e i partner con cui occorre lavorare.

Ci può parlare dei suoi progetti?

I miei progetti, dal punto di vista dell’impegno civico, hanno a che fare con tutto questo. Vorrei vedere potenziate le capacità attrattive dei luoghi che si occupano di programmazione nell’ambito delle culture giovanili.
Torino è la città che in Italia vanta il più alto numero di festival di qualità rivolti ai più giovani, ma sono in pochi a saperlo, anche tra gli amministratori. E questo è un problema, nella misura in cui c’è chi prediligerebbe grossi carrozzoni commerciali- soprattutto dopo la sbornia Eurovision-, che in nessun luogo al mondo sono in grado di comunicare le specificità di una città. Tantomeno di attivare comunità.
Vorrei che il mondo della musica, naturalmente attivo, creativo, comunicativo e resiliente, fosse coinvolto di più nei processi di trasformazione della Città.

Vorrei che Torino creasse un aggregatore delle culture digitali, spaziando tra l’autorevolezza di un Club to club (unico festival musicale italiano segnalato da Pitchfork, il più importante portale di musica al mondo), alcune reti giovanili attive nell’ambito delle New Media Art e le organizzazioni della musica elettronica di qualità. Un luogo capace di generare, su scala più diffusa, quegli input che oggi mancano. Un luogo dedicato alla musica, ma anche alla formazione e alla sperimentazione permanente, pensato da e per i più giovani.
Vorrei che ci preoccupassimo di più del fatto che alla maggior parte dei ragazzi oggi noi stiamo offrendo unicamente la proposta “chupito a un euro su strada”. Anche per la fruizione sociale della notte dovrebbero essere elaborati progetti ad hoc, per mettere a disposizione spazi in cui non siano presenti quelle criticità che, in quartieri come Vanchiglia, San Salvario e Rossini, per fare alcuni esempi, stanno causando problemi anche alla stessa amministrazione. Le idee ci sono, a volte mancano le occasioni di confronto. Mi sto impegnando per tutto questo.

Torino è una città inclusiva?

Torino è una città culturalmente orientata verso la coesione sociale, ma caratterialmente diffidente e chiusa. Considero positivo il fatto che negli ultimi quindici anni sia diventata meta d’approdo di ragazzi provenienti da tutta Italia, anche grazie alla vivacità della sua scena musicale, capace di donarle uno status da capitale della cultura giovanile.
La sua capacità di inclusione ha molto a che fare anche con l’accessibilità dei prezzi, decisamente migliore rispetto alle altre città italiane.

Ci racconta una sua personale esperienza di inclusione?

Ogni cronaca personale sull’argomento verrebbe spazzata via dal racconto di una qualsiasi serata passata ai Murazzi, verso la fine degli anni Novanta. Lì confluiva tutta la città: dagli studenti ai disoccupati; dagli artisti – scrittori, pittori, scultori, musicisti, registi sedicenti o realmente tali – ai ricchi della collina; dai giovani a “quelli degli anni settanta”; dai più impegnati a chi voleva semplicemente passare una serata emozionante nel luogo più affascinante di Torino, tra lingue e accenti diversi. Un luogo dove, fondamentalmente, la città imparava a conoscere sè stessa.