“Con la cooperativa abbiamo realizzato progetti che erano stati studiati ad hoc per la persona, ma che in realtà hanno avuto un impatto, oltre che sul singolo individuo a cui erano destinati, anche su tutta la comunità. Vogliamo essere protagonisti del cambiamento culturale del nostro territorio”
Una vita dedicata al prendersi cura degli altri, bambini, malati psichiatrici, ragazze vittime della prostituzione, migranti. Silvana Perrone coordina il lavoro de L’Isola di Ariel, una Cooperativa sociale impegnata nella progettazione, realizzazione e gestione di servizi alla persona. Al centro del suo operare, l’attenzione costante alla qualità delle proposte da offrire all’utenza, grazie all’impiego di risorse economiche e umane in attività di ricerca, creazione di opportunità, forme di motivazione al lavoro e formazione del personale, alla scoperta di sempre nuove soluzioni organizzative, professionali e di soddisfazione dei bisogni per il miglioramento della qualità della vita.
Quali sono oggi le vostre attività che promuovono l’inclusione?
Un momento di svolta è stato il 2010 quando, con la primavera araba, abbiamo assistito al primo esodo di massa proveniente da un continente al di fuori dell’Europa. Abbiamo dovuto reagire, capire cosa fare e come farlo. Per questo abbiamo iniziato a costruire una grande casa dove tutti i giorni accogliamo donne e uomini che arrivano da molto lontano e ci occupiamo dei loro bisogni primari, come un’abitazione, cibo e vestiti. Ma non ci fermiamo all’emergenza: subito dopo ci concentriamo su quelle che possono essere le loro opportunità concrete di integrazione nella nostra società e di emancipazione socio-economica. Abbiamo creato dei protocolli con gli enti formativi e con le scuole, con lo scopo di favorire la formazione scolastica e professionale. Nascono da qui i laboratori di sartoria, di salderia, di falegnameria e di cura dell’orto. E nel 2011 prende il via anche l’esperimento de La Locanda Clandestina, un ristorante che, oltre a offrire piatti squisiti della cucina italiana e mediterranea, ci ricorda come tutti noi siamo in via di perfezionamento dal punto di vista umano, sociale, economico. Siamo molto orgogliosi di quello che abbiamo realizzato con questo progetto. Grazie alla Locanda Clandestina, molte persone hanno appreso un mestiere e hanno potuto emanciparsi e realizzarsi. Penso, ad esempio, a un ragazzo, che adesso è ingegnere e lavora in Francia, e che, durante gli studi, si è mantenuto facendo il cameriere nel ristorante; a una ragazza che ha iniziato nella nostra cucina per diventare oggi una cuoca molto apprezzata; e ancora al primo cuoco affiancato presso La Locanda Clandestina, un ragazzo del Darfur, arrivato qui con problemi di denutrizione e un rapporto difficile con il cibo, che grazie a questo lavoro è riuscito a risolvere con successo. Visti i risultati, il nostro progetto si è espanso e abbiamo aperto altre locande, caffetterie, trattorie e panifici.
Sono tutte storie capaci di far riflettere sul valore delle opportunità che si possono offrire concretamente.
È così. Possiamo anche farcele raccontare in prima persona. Zhara, per esempio, può dirci la sua esperienza. Zhara: “Io sono arrivata in Italia scappando dalla guerra in Somalia; era nel 2000, un periodo in cui la cultura dell’accoglienza era meno diffusa, ma non ci siamo fermati e abbiamo combattuto per i diritti degli immigrati. Ho seguito un corso professionale di mediatrice e ho iniziato a lavorare nel mondo delle cooperative, con cui ero entrata in contatto grazie a dei miei connazionali somali. All’epoca non avevo una buona opinione dei gestori delle cooperative: sono infatti stata testimone di persone che avevano come solo scopo quello di lucrare. Da quando sono entrata ne L’Isola di Ariel, invece, ho visto che cosa significa lavorare giorno e notte insieme, creando dei rapporti veri con gli ospiti e parlando con loro, per conquistare la loro fiducia. Non abbiamo avuto sempre successo, ma siamo orgogliosi quando vediamo che l’80% dei ragazzi immigrati, che si trovano in Piemonte, sono passati da noi. La cultura italiana dell’inclusione è legata soprattutto all’assistenza, noi vogliamo andare oltre: vogliamo che le persone siano autonome, aiutandole a raggiungere i loro obiettivi. Per questo interpretiamo il nostro lavoro sociale come un obbligo a fare il meglio che si può per chi si rivolge a noi.”
Un approccio che non parte più dall’assistenza, ma mette al centro la valorizzazione delle capacità della persona.
Noi siamo dei professionisti, ci siamo dati degli strumenti di ausilio. Il primo è la costruzione di un metodo di accoglienza. A partire da un’intervista dedicata alla singola persona che viene accolta per comprendere i suoi desideri: perché se c’è il desiderio, esiste anche la speranza, e noi lavoriamo proprio su quella.
Nel corso degli anni caldi del 2016-2017, abbiamo capito come questo territorio sia accogliente solo all’apparenza: se persone che si sono radicate qua da cinquanta anni vengono ancora considerate “straniere”, figuriamoci come viene visto chi arriva adesso. Con l’impegno della cooperativa è stato possibile realizzare progetti che noi abbiamo studiato ad hoc per la persona, ma che in realtà hanno avuto un impatto, oltre che sul singolo a cui erano destinati, anche su tutta la comunità. Possiamo affermare di essere tra i protagonisti del cambiamento culturale a cui stiamo assistendo nel nostro territorio. Per quel che mi riguarda, ho cominciato a diciotto – diciannove anni a fare volontariato, aiutando una suora che lavorava con i bambini. Negli anni mi sono poi avvicinata alla situazione dei malati psichiatrici, persone che quando parlano, non riescono a farsi sentire, perché nessuno ha voglia di ascoltarle. È così che ho capito che il dialogo, l’ascolto e l’osservazione sono momenti fondamentali del “prendersi cura” dell’altro, nella sua singolarità. Oggi gli operatori sul campo, quali siamo noi, si trovano a lavorare all’interno di un sistema che fa acqua da tutte le parti: da anni vediamo le persone perdere la loro identità nell’essere ridotte a numero e identificate secondo una posizione amministrativa. Negli ospedali psichiatrici abbiamo assistito a una situazione quasi insostenibile: incontravamo dipartimenti che risparmiavano sulle quote della retta degli utenti, dividendo il “guadagno” tra gli operatori del dipartimento.
Chi lavora in questo campo deve avere una vera e propria vocazione. È inutile occuparsi di scienze sociali, psicologia, antropologia senza possedere empatia, misericordia e la capacità di non essere giudicante: il rischio è quello di produrre molti danni. Ma non dimentichiamoci anche di costruire dei protocolli comportamentali: il nostro è a tutti gli effetti un lavoro che, in quanto tale, richiede professionalità. Occuparci delle persone è per noi un dovere civico e professionale insieme.
Quali sono oggi i nuovi bisogni e le nuove emergenze che necessitano di inclusione sociale?
Il disagio del periodo post Covid-19 ha reso le persone molto spaventate. Ci siamo trovati di fronte a problematiche sociali pesanti, aggravate dallo stop alle nostre azioni quotidiane dovuto alla pandemia. Ora ci sono problemi economici enormi, con tutti i risvolti psicologici che ne derivano perché nessuno può più sentirsi indenne da questa situazione di crisi. Quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni e mezzo ci impone un ridisegno complessivo del nostro perimetro di intervento: oggi, probabilmente, l’Isola di Ariel potrebbe accogliere anche il nostro vicino di casa.
Noi come operatori dobbiamo ricominciare a frequentare i territori, spingendo le persone a uscire di casa per superare il rischio dell’alienazione che ci conduce a negare l’importanza del rapporto con l’altro. Dobbiamo ribadire il senso dell’umanità insieme a quello di comunità: le cooperative e gli enti ora devono impegnarsi nella organizzazione di feste di quartiere, tavolate, mercati del rione, tutto quello che significa socialità, incontro, scambio e dialogo. Anche la politica dell’accoglienza degli immigrati va rivista totalmente: quanti sanno veramente cos’è un hotspot? Noi abbiamo conosciuto tante persone che dopo essere state in questi “luoghi” sono andate incontro a problemi psicologici anche profondi. La politica dell’accoglienza deve assolutamente cambiare.
La vostra quotidiana esperienza sul campo è preziosa per comprendere le priorità d’intervento.
Come dicevo, è solo partendo dall’ascolto delle persone che si possono strutturare tutte le azioni successive. Liuba, per esempio, ha raccolto da alcuni ospiti le motivazioni all’origine del loro spostamento, come può raccontarci lei stessa: “A seconda dello Stato di origine le ragioni sono differenti, ma sono sempre in qualche modo legate alla storia passata e presente delle politiche occidentali. Come nel caso del Senegal e del Camerun, che hanno un rapporto speciale con la Francia. Oppure nel caso del Congo, da cui proviene molto del litio che impiegano le grosse aziende europee dell’automotive”.
In che modo, dunque, la società può diventare più coesa nel combattere le disuguaglianze?
Resta molto da fare, e soprattutto va fatto in collaborazione, tenendo gli occhi bene aperti. Dove sono la finanza, la polizia, l’ispettorato del lavoro e il sindacato là dove viene svolta quotidianamente attività di caporalato? O nel caso di tutte le badanti che sono costrette a lavorare al nero? Noi dobbiamo formare le persone che aiutiamo per non renderle facili vittime di questi fenomeni di sfruttamento. Per questo, abbiamo bisogno di processi culturali soprattutto a partire dalle periferie, dove la marginalizzazione facilmente può generare forme di esclusione o di assistenzialismo. È così che passa l’idea totalmente sbagliata secondo cui quello che viene offerto non è un diritto, ma un favore che ti viene concesso. In questo modo, rischiamo tutti di diventare degli analfabeti di ritorno sul piano della vita democratica, rinunciando alla tradizione culturale e politica che ci distingue come cittadini europei.