“Soltanto riprendendo confidenza con la sensatezza della vita possiamo considerare l’uguaglianza la risorsa che ci permetta di affacciarci al futuro con fiducia e speranza”
Ci sono forme di disuguaglianza verso le quali oggi tendiamo a essere forse più attenti e altre che sono in crescita, come la mancanza di attenzione nei confronti delle persone anziane. E anche dei più giovani. Oltre che verso gli immigrati, per i quali scopriamo di provare attenzione più verso alcuni che verso altri. In una grande città come Torino si evidenziano, così, esclusioni che generano solitudini profonde e che meritano grande attenzione. Ascoltare ed essere ascoltati rappresentano oggi i cardini di un potente bisogno di inclusione. E proprio il tema dell’ascolto è al centro della riflessione di Roberto Repole, arcivescovo metropolita di Torino e vescovo di Susa. Per riportare l’attenzione, sia di laici che credenti, sulla grande questione del senso della vita: un’attenzione che evidentemente è anche educazione.
Venendo alla città di Torino, ha visto nascere dei nuovi bisogni di inclusione?
Credo che ci siano delle solitudini profonde in questa città che meriterebbero maggiore attenzione e inclusione: sono tante le persone sole che fanno fatica a trovare qualcuno che le ascolti. Si tratta però di un problema che difficilmente entra nel dibattito pubblico e nella coscienza comune. La possibilità di essere ascoltati rappresenta oggi un bisogno di inclusione potente.
Cosa significa per lei il termine inclusione?
Dare dignità alle persone e permettere a ognuno di svilupparsi nelle proprie potenzialità, sapendo che questa progressione deve per forza fare i conti con le dimensioni di ingiustizia che ci sono in natura. Ma, allo stesso tempo, anche con la realizzazione della propria identità.
Lei ha parlato del bisogno che tutti hanno di poter sviluppare le proprie potenzialità. Questo ci porta al concetto di disuguaglianza, che in certi casi è naturale, in altri è creata dall’uomo. Possiamo dire che esistano una dimensione laica e una religiosa attorno al termine inclusione e, di conseguenza, risposte diverse?
Esistono innanzitutto delle motivazioni differenti. La dimensione religiosa è specificamente cristiana e trova i fondamenti dell’inclusione nella fede in Gesù Cristo. Questo non significa che non ci possano essere atteggiamenti analoghi tra chi è laico e chi è cristiano nel momento in cui si opera l’inclusione, ma certamente le motivazioni possono essere diverse. Verrebbe da dire che il Credo sulla cui base i cristiani tendono a essere inclusivi offre la possibilità di smascherare nuove esclusioni di tutti i generi. Ad esempio: in nome del Vangelo abbiamo visto che nella storia si sono verificate spesso esclusioni di malati, ma sono sempre state combattute con conseguenti forme di carità.
Dal punto di vista laico possiamo pensare all’intervento del legislatore. Come mai il laicismo trova difficoltà a trovare una soluzione alla disuguaglianza?
Alcune volte può essere così, altre no: ci sono state legislazioni che hanno lavorato e che lavorano per creare uguaglianza laddove vi sono delle disparità.
Per semplificare, da una parte abbiamo il Vangelo, dall’altra la Costituzione. Dal suo osservatorio, crede che le disuguaglianze stiano aumentando o diminuendo in questo periodo?
Direi che ce ne sono alcune che possono diminuire, poiché siamo più sensibili culturalmente. Rispetto al passato, ad esempio, siamo più attenti verso le disuguaglianze che toccano le donne. Magari non a tutti i livelli della società ma, culturalmente, mi sembra che comunque ci sia molta più attenzione oggi piuttosto che nel passato su questo tema. Ci sono, però, altre disuguaglianze che, invece, possono crescere: ad esempio, io non so se siamo più così attenti alle persone anziane, oppure ai più giovani. Se pensiamo anche alla questione degli immigrati, scopriamo subito che ci troviamo a essere più attenti ad alcuni piuttosto che ad altri.
Venendo alla città di Torino, ha visto nascere dei nuovi bisogni di inclusione?
Credo che ci siano delle solitudini profonde in questa città che meriterebbero maggiore attenzione e inclusione: tante persone sole che fanno fatica a trovare qualcuno che le ascolti. Si tratta però di un problema che difficilmente entra nel dibattito pubblico e nella coscienza comune. La possibilità di essere ascoltati rappresenta oggi un bisogno di inclusione potente.
Come mai secondo lei succede questo? C’è una carenza della famiglia, della funzione pubblica, della funzione spirituale?
Penso che i motivi siano molteplici, a partire da un forte individualismo che porta allo sfilacciamento dei legami come la famiglia e la comunità civile che un tempo potevano arginare molto il fenomeno della mancanza di ascolto. Ancora oggi è diverso vivere in un paese o in una grande città: in un paese la convivenza civile gioca un ruolo ancora attivo mentre in una grande città si rischia di essere più soli. Un altro elemento in questo senso è la tentazione di ridurre l’umano e la sua felicità alla dimensione economica di un costante acquisto di nuove cose.
Mai come in questo momento siamo chiamati a una responsabilità nuova, ovvero al bisogno di ricostruire il futuro come l’occasione per ristabilire uguaglianza e inclusione. Quali azioni potremmo sviluppare? Perché dobbiamo trovare una nuova dimensione, laica e spirituale, del bisogno di inclusione, e forse è questo il momento di fare qualcosa.
Credo che bisognerebbe rimettere al centro, sia di laici che credenti, la grande questione del senso della vita: un’azione che evidentemente è anche educazione. Soltanto riprendendo confidenza con la sensatezza della vita si possono tirare fuori delle risorse di uguaglianza che ci permettono di affacciarci al futuro con fiducia e speranza. Ma questa è una questione che, però, mi sembra sempre più evasa.
Le è mai capitato di essere escluso?
Un conto è ragionare sull’esclusione degli altri, rispetto a cui siamo chiamati a non rimanere indifferenti e a operare per generare l’inclusione. Diverso è invece subire l’esclusione. Tutte le volte che mi è capitato è stata per me un’occasione più profonda di vivere con Cristo e di definire l’esperienza come mezzo di inclusione per tutti gli altri. Questo fa parte della mia fede. Ricordo delle sensazioni di esclusione più nella vita adulta: ci sono stati momenti in cui ho avuto la percezione che avrei potuto offrire un contributo con il mio lavoro, ma non sono stato preso in considerazione per motivi che esulano dalla mia competenza.
Quand’è che ha sofferto di più, anche dal punto di vista personale, nell’osservare situazioni di esclusione verso altri?
Quando mi è capitato di vivere l’esclusione verso alcuni preti che ritengo avessero una bontà e un’intelligenza fuori dal comune e che subivano delle marginalizzazioni non giuste.