“Ripercorrere gli ultimi cento anni di storia, con riferimento ai sistemi educativi e alla povertà, significa scoprire che il problema vero è sempre stato quello delle disuguaglianze. Una parola chiave che si declina nell’accesso all’istruzione e al lavoro, nelle condizioni abitative, nella tutela della salute”
I temi delle disuguaglianze nelle opportunità educative e nelle scelte scolastiche, con particolare attenzione alla classe sociale, al genere e all’origine etnica, sono da sempre al centro della ricerca e della riflessione di Giulia Maria Cavaletto. Ha ricoperto il ruolo di Consigliera di parità della Regione Piemonte. È autrice di numerosi saggi di studi sociali, fra cui ricordiamo: Questioni di classe. Discorsi sulla scuola (2016, Rosenberg & Sellier), scritto con Adriana Luciano, Manuela Olagnero e Roberta Ricucci; Scienza e tecnologia: superare il gender gap. Un’indagine a Torino (2019, Ledizioni), con Mariella Berra; Democrazia: le sfide del presente tra rappresentanza e partecipazione (2020, Rubbettino editore), con Sara Lagi e Roberta Ricucci.
Cosa significa per lei il termine inclusione?
Ci possono essere tante definizioni. La mia idea è che non sia tanto una questione di confini o di dentro e fuori, quanto piuttosto una questione di ascolto. La pregnanza dell’ascolto è legata alla necessità dell’interpretazione. Credo ci sia bisogno di una sorta di ermeneutica socioculturale come descritta da una nota teoria di Boduon – la teoria della scienza razionale -, secondo cui, per comprendere l’agire sociale dell’altro, bisogna mettersi al suo posto, così da comprenderne le buone ragioni.
La parola chiave dell’inclusione è, per l’appunto, ascolto, ovvero il tassello base per poter costruire un canale comunicativo aperto in modo bidirezionale. All’interno della parola inclusione è sempre presente un residuo di assimilazione a cui va incontro l’individuo, come se qualcuno si dovesse plasmare, adattare e modulare rispetto ai protocolli socialmente attesi dei Paesi di accoglienza, perdendo così le ricchezze proprie di chi arriva da Altrove. Dalla pluralità di punti di vista, di esperienze, di modi di vedere, non può che derivare un beneficio, a condizione, però, che ci sia capacità di ascolto e capacità ermeneutica, che consentano di interpretare e attribuire valore, significato e senso alle condotte, finanche devianti o diverse rispetto alle norme socio-culturali di chi ascolta, dell’altro.
L’inclusione, quindi, passa attraverso una ardua attività di ascolto, interpretazione e decodifica. Queste attività devono essere svolte a livello macro, meso e micro: in primo luogo a partire dalle istituzioni, per proseguire con tutti quei corpi intermedi come l’associazionismo, il Terzo Settore, le ONG, fino ad arrivare al singolo attore sociale nelle sue interazioni e pratiche quotidiane.
Ponendoci in questa condizione di ascolto, secondo lei, quali sono i nuovi bisogni di inclusione sociale?
Credo che ci sia un riproporsi di una certa gamma di bisogni che sono sempre gli stessi, solo che vengono aggiustati e ridefiniti a seconda del momento storico. Se dovessimo ripercorrere gli ultimi cento anni, in Italia e in Europa almeno, con riferimento ai sistemi educativi e alle storie di povertà, il problema è sempre stato quello della disuguaglianza, una parola chiave che si declina nell’accesso all’istruzione e al lavoro, nelle condizioni abitative, nella tutela della salute e così via. In questo orizzonte, quello della disuguaglianza e delle disuguaglianze, possiamo riscontare il grande paradosso del nostro tempo, perché molto si è tentato di fare ma non sempre con risultati all’altezza delle aspettative.
È indubbio che il problema della disuguaglianza abbia stimolato l’attuazione di una serie di politiche a contrasto delle disuguaglianze stesse. Tuttavia, mutuando Norberto Nobbio, sappiamo che uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale non sono la stessa cosa. Pensiamo alle disuguaglianze di genere: le istituzioni formalmente ne rimarcano l’attenuazione o addirittura l’inesistenza, ci viene detto che la retribuzione secondo i contratti collettivi di lavoro è la stessa, ma sappiamo tutti che non è così; o meglio, è così secondo i codici, ma non è così in base alle pratiche quotidiane e alle esperienze di lavoratori e lavoratrici, che percepiscono nei fatti retribuzioni differenti sulla base dell’incidenza più o meno rilevante del salario variabile che penalizza le donne e avvantaggia gli uomini. Vale anche per le opportunità nella scelta dei percorsi di istruzione, specialmente se si appartiene a una classe sociale svantaggiata o si è stranieri, perché in questi casi, spesso, lo stereotipo agisce in modo più forte della obiettiva valutazione delle potenzialità dello studente; le pratiche orientative sono a loro volta spesso affette da condizionamenti e luoghi comuni che deprimono l’effettiva libertà di scelta. Dovremmo, quindi, riuscire ad affermare che quella retorica secondo cui tutti abbiamo le stesse opportunità si scontra con una persistente disuguaglianza, profondamente segnata dalle condizioni di partenza e da una serie di variabili, come il genere, l’origine etnica, per citare quelle maggiormente comuni. A mio parere, i bisogni fondamentali legati all’inclusione rimandano a tutte le azioni che devono contrastare le disuguaglianze, in primo luogo in ambito educativo, ma anche socio-economico.
In questo contesto, che ruolo esercitano le istituzioni?
Rispetto all’evoluzione dei bisogni, credo che un altro grande problema sia l’ulteriore “complessificazione” della risposta burocratica da parte delle istituzioni. Questo comporta, all’interno di un sistema di welfare composto da una popolazione che invecchia sempre di più, un eccesso di burocratizzazione e, talvolta, una risposta di tipo informatico-digitale che amplifica le disuguaglianze e i problemi, piuttosto che ridurli.
In questo senso, basta pensare a dispositivi digitali come lo Spid e altre procedure che possono essere svolte solo on line, a fronte di una popolazione che non ha un tasso di copertura e utilizzo di internet pari al 100% e che comprende intere categorie di over 65 quasi del tutto analfabeti informatici. I nostri giovani, dal canto loro, i cosiddetti nativi digitali, nei fatti trovano difficoltà nell’effettuare una ricerca critica delle fonti e nel verificare la fondatezza di un’informazione. Sul versante delle istituzioni, pertanto, ancora molto c’è da fare in modo coerente con le caratteristiche e i bisogni della popolazione, che non può essere trattata come un unicum e con la semplice applicazione di soglie, coefficienti, moltiplicatori e quozienti.
Quali sono, secondo lei, le azioni necessarie per ridurre le disuguaglianze di natura socio-economica?
Sotto il profilo economico abbiamo potuto vedere che la risposta del reddito di cittadinanza non è stata sufficiente. Sarebbe, a mio parere, necessario passare attraverso un sistema di accesso al lavoro capace di rispondere a una disuguaglianza molto radicata, che trova le sue origini nel nostro sistema educativo e nelle condizioni familiari. In particolare, mi pare meritevole di attenzione la transizione scuola-lavoro. La costruzione di una reputazione sociale affidata ai mestieri è uno dei grandi bisogni sociali del nostro tempo, perché smonta l’idea che tutti debbano per forza studiare all’università e che soltanto coloro che proseguono gli studi siano cittadini di serie A, meritevoli di riconoscimento sociale. I mestieri sono stati lungamente apprezzati e stimati, poi c’è stato un declino che li ha derubricati a posizioni subalterne, prive di valore. La società delle credenziali educative (che è indubbiamente un bene perché ha elevato i livelli di istruzione medi) ha svilito la formazione professionale e tutti i percorsi che privilegiano il “fare” rispetto al “sapere”.
Un altro tema molto rilevante è quello delle nuove povertà, con la fortissima perdita di terreno da parte dei ceti medi. Nel prossimo biennio assisteremo a una consistente riduzione del loro potere di acquisto, che avrà ripercussioni a livello intergenerazionale: si perderanno capacità di spesa e di risparmio, togliendo opportunità ai più giovani.
C’è poi la questione fondamentale del merito: chi sarà in difficoltà sarà adeguatamente supportato per andare avanti? E non mi riferisco al termine secondo la dicitura del nuovo Ministero dell’Istruzione e del Merito. “Merito” è per me sinonimo di adeguamento dell’intervento educativo ai bisogni e alle risorse del singolo. Ci può essere molto più merito in chi, partendo dal basso e con tutte le probabilità a sfavore, compie piccoli ma significativi progressi, piuttosto che in una collezione di 10 e lode di chi partiva già in vantaggio. Questo è il cuore del problema, che rimanda al tema delle disuguaglianze di cui parlavo prima: i blocchi di partenza non sono nello stesso punto per tutti.
Il denominatore comune di questi tempi così spinosi è che le nostre società hanno un approccio che è sempre quello dell’emergenza e non della programmazione di lungo corso. È come se ci fosse una completa opacità e non consapevolezza non solo del nesso causa- effetto, ma anche di quel principio secondo cui le nostre azioni individuali o le condotte di gruppo generano sempre delle conseguenze, al netto del fatto che possono esserci eventi che le amplificano o che viceversa ne riducono l’efficacia. La logica dell’emergenza, a mio giudizio, è nemica di ogni contrasto alle disuguaglianze.
L’unico segmento in cui, a mio avviso, si sta veramente provando una reale azione di socializzazione all’inclusione e alla diversità è quello della scuola primaria, un intervento che purtroppo tende a rarefarsi già all’interno del ciclo secondario inferiore, per poi disperdersi completamente alle superiori e di lì in avanti.
In che modo la società può essere più competitiva nel combattere le disuguaglianze?
Partendo dall’alto, ci vogliono una programmazione e una rivalutazione di quelle che devono essere le azioni necessarie, in un’ottica di lungo termine. Aggiungerei che siamo passati da una stagione del collettivo, quella degli anni Sessanta e Settanta, in cui c’erano grandi cause comuni e mobilitazioni, a una stagione, che dura ormai da alcuni decenni, in cui a prevalere è l’individualismo più assoluto, con un limitato impegno civile, una limitatissima partecipazione politica e un basso livello di coscienza civile. Il rilancio della dimensione individuale, infatti, non si risolve in nuove forme di protagonismo del singolo, quanto in una profonda solitudine e isolamento dal punto di vista della sua capacità di riconoscersi all’interno di un gruppo sociale con valori e fini condivisi. Ho forti perplessità anche nei confronti di alcuni movimenti di piazza: se veramente fossero animati da profonde convinzioni, non ci troveremmo in una situazione come questa sul piano ambientale, civile, sociale. Credo ci sia una forte responsabilità dei mezzi di comunicazione, che non soltanto veicolano l’informazione in modi non sempre condivisibili, ma anche selezionano quali informazioni condividere e portare in prima pagina, orientando in tal modo la formazione dell’opinione pubblica.