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Direttore CPD Consulta per le Persone in Difficoltà

GIOVANNI FERRERO

“Integrare vuol dire inserire una minoranza all’interno di un gruppo più ampio; includere significa non solo integrare la minoranza, ma anche mettere a disposizione tutti gli strumenti per far sì che questa minoranza possa vivere serenamente e dignitosamente”

Direttore della Consulta per le Persone in Difficoltà, con particolare attenzione alla tutela dei diritti delle persone con disabilità, Giovanni Ferrero è Vice Presidente della Fondazione OMI e componente della Commissione ministeriale sul turismo accessibile presso il MIBACT. Inoltre siede nel consiglio direttivo del Centro Servizi Volontariato – Vol.To e docente ITS sui temi della accessibilità. Dal 1988 la CPD – Consulta per le Persone in Difficoltà – opera a tutela delle persone con disabilità, anziane o in condizione di fragilità e delle loro famiglie.

Che cosa significa per lei il termine inclusione?

Inclusione per me vuol dire non lasciare indietro nessuno. Significa che tutti devono poter partecipare alla gara della vita, e che la società deve mettere a disposizione di chiunque le condizioni per poter vivere nel miglior modo possibile.

C’è una differenza tra integrazione e inclusione?

Per noi, sì. Secondo il punto di vista della Consulta, “integrare” vuol dire inserire una minoranza all’interno di un gruppo di maggioranza; “includere”, invece, significa non solo integrare la minoranza, ma anche mettere a disposizione tutti gli strumenti per far sì che questa minoranza possa far parte della comunità e vivere secondo le proprie aspettative. L’inclusione presuppone azione, impegno e lavoro per fornire alle persone, che sono rimaste più in difficoltà, tutti quei servizi e quelle opportunità che possono creare coesione e appartenenza a una comunità.

Nel vostro progetto HPL si insiste sulla necessità di una inclusione concreta, che esista nei fatti e non solo nelle parole.

Il progetto HPL – High Performance Learning, promosso da ADN Associazione Diritti Negati e CPD Consulta per le Persone in Difficoltà, interviene a favore dei bambini che frequentano la scuola primaria e che fanno fatica a scuola perché hanno un funzionamento intellettivo limite. Sono studenti che, pur facendo molta fatica nello studio e nell’apprendimento, non sempre sono riconosciuti dalla scuola e indirizzati verso una diagnosi precisa. Spesso sono etichettati come svogliati e lasciati al loro destino. Anche quando diagnosticati, la Scuola ha la facoltà di decidere se supportarli o meno con un piano didattico personalizzato. È una lacuna da colmare: questi bambini senza un piano didattico personalizzato studiato apposta per loro sono destinati a vivere il fallimento scolastico. Si tratta di bambini consapevoli di avere problemi di apprendimento che, nel tempo, portano a problematiche anche comportamentali dovute al senso di frustrazione e fallimento che vivono quotidianamente. Spesso abbandonano precocemente la carriera scolastica e faticano molto di più a essere inclusi nella società. Il nostro obiettivo è quello di prevenire il disagio che potrebbe emergere da tali situazioni, entrando anche nelle scuole per capire quali possono essere gli strumenti didattici migliori per facilitare il loro apprendimento e la loro piena e soddisfacente partecipazione alla vita scolastica. Aiutare questi bambini oggi, vuol dire lavorare in proiezione anche per la società di domani. Se non si interviene in modo adeguato, la loro mancata integrazione nel gruppo dei coetanei e, in seguito, la difficoltà a trovare un lavoro, potrebbero tradursi in costi sociali per tutta la comunità. Per questo, sarebbero necessarie molte più politiche legate alla crescita del bambino. Il nostro è un obiettivo ambizioso: vorremmo che il nostro progetto potesse diventare un giorno un’attività strutturata nell’ambito della stessa istituzione scolastica. Un traguardo che però necessita di un’attività di formazione di specifiche competenze.

C’è quindi un doppio livello di intervento: in primo luogo rivolto alla persona, ma in prospettiva anche alla società.

La società che lavora di più sul valore dell’inclusione produce più PIL: gli Stati che perseguono politiche di inclusione sono anche quelli che fanno meno fatica a livello economico. Ritengo che quando una famiglia sta bene sotto il profilo del benessere psico-fisico, poi possa stare bene anche sotto il profilo economico. L’attenzione alla psicologia degli individui fa sempre la differenza, soprattutto nell’età evolutiva e nell’ambito scolastico quando è più facile raggiungere il bambino e supportarlo a favore di una crescita equilibrata. Il rischio è avere dei giovani che faranno più fatica a inserirsi nel contesto sociale e lavorativo, richiedendo così un intervento dello Stato con compensatori sociali e pratiche assistenzialiste, come il reddito di cittadinanza. In generale, oggi sembra esserci meno attenzione alla persona, già nella scuola: ad esempio, è assurdo che una legge imponga alle persone con disabilità di stare dentro una classe, quando dopo l’appello questi studenti vengono presi dall’insegnante di sostegno e portati fuori. Attualmente nella scuola c’è molta integrazione, ma non c’è inclusione. Non ha senso dare gli stessi strumenti a bambini che sono diversi l’uno dall’altro. Insegnare significa saper comunicare con tutti i soggetti, a partire dalla loro individualità.

Dal suo punto di vista, quali sono i nuovi bisogni di inclusione a cui bisogna rispondere?

Proveniamo dal difficile periodo pandemico, che ci ha portati a concentrarci molto sul contrasto alla povertà che ne è derivata per gli strati sociali più fragili. Abbiamo attivato politiche di inclusione a favore di famiglie con reddito a forte rischio povertà, con significative ripercussioni anche sul piano psicologico. Noi cerchiamo di aiutare queste persone, combattendo anche contro la solitudine e cercando di offrire una speranza. Importante, poi, è il tema delle fragilità cognitive, che sta diventando una questione cruciale, anche in prospettiva: i dati recenti parlano di un pericoloso aumento dei bambini con disturbi cognitivi. Occorre intervenire prima che questo diventi un problema importante.

Può raccontarci una esperienza personale di inclusione?

Sono un ragazzo fortunato, poiché tutta la vita di mio padre è stata legata al tema dell’inclusione. È stato lui a fondare la Consulta, che oggi ho l’onore di dirigere. Per me la sua esperienza è stata un esempio continuo: sono molte le persone che ha aiutato a trovare un’occupazione. E sempre spronando i soggetti che venivano esclusi per disabilità fisiche a lavorare in primis su se stessi, così da rendersi competitivi nel mondo del lavoro. L’inclusione passa dai diritti, ma anche dai doveri: questo è il suo più importante insegnamento.

Come può la società essere più competitiva nel combattere le fragilità e le disuguaglianze?

La società deve recuperare l’indignazione di una volta. Gli argomenti legati al tema della disabilità sono gli stessi da vent’anni, con la differenza che oggi molte cose non indignano più l’opinione pubblica. Perciò anche il politico non è spinto a trovare soluzioni. Solo indignandosi si può fare gruppo e agire per modificare quello che non va. La mancanza di indignazione, al contrario, genera egoismo e individualismo.

Dal suo punto di vista, che cosa si potrebbe fare per promuovere occasioni di sensibilizzazione?

C’è sicuramente una mancanza di educazione civica. In primo luogo, si dovrebbe lavorare sul fatto che all’istituzione scolastica non viene più riconosciuta l’importanza che meriterebbe. Mancano anche i punti di riferimento da offrire ai giovani. Diventa difficile fare educazione civica nelle scuole se l’interesse resta teorico, senza trovare riscontro nella condotta di tutti i giorni. Per fare un esempio: chi parcheggia nei posti riservati alle persone con disabilità senza averne bisogno, lo fa perché non capisce davvero il disagio che crea. Non è una questione di leggi, è una questione di sensibilità. Devo dire che da parte delle nuove generazioni sto notando un’attenzione crescente verso le differenze: spero, perciò, che la conservino a dispetto di quegli adulti, che attualmente governano la società e la stanno perdendo. Per fare un esempio, ho notato che qui a Torino alcuni negozi a cui nel 2006 avevamo regalato una rampa per garantire l’accessibilità a tutti, oggi non ce l’hanno più. L’accessibilità è dunque ancora un problema concreto, e sembra che nulla sia cambiato negli ultimi vent’anni.
È proprio l’attenzione che manca.