“In una prospettiva di autentica inclusione, c’è bisogno della corretta declinazione dei bisogni per giungere alla corretta declinazione dei supporti necessari per soddisfarli, debitamente accompagnati dalle risorse che occorrono per garantirli”
Presidente Anffas Piemonte e vice presidente FISH Piemonte, la Federazione Italiana Superamento Handicap, dal 2019 Giancarlo D’Errico è anche presidente di Anffas Torino, un’associazione di famiglie che offre sostegno, accoglienza, ascolto e rappresentanza per affrontare le sfide quotidiane della disabilità. Costruire un mondo in cui le persone con disabilità intellettive e con disturbi del neuro-sviluppo, insieme con le loro famiglie, possano vedere i propri diritti rispettati e resi pienamente esigibili: questo è il traguardo dell’impegno di Anffas Torino, dal 1959 ad oggi.
Che cosa significa per lei oggi il termine inclusione?
Nella nostra società abbiamo assistito, nel tempo, a un’evoluzione che ha determinato il passaggio dalla semplice “non discriminazione” del disabile per arrivare all’“integrazione” e, infine, approdare alla sua “inclusione”. La percezione della disabilità è quindi molto cambiata nel corso del tempo. Oggi, inclusione significa contaminazione di tutta la società con l’abbattimento degli steccati che collocavano le varie categorie “diverse” in spazi chiusi e circoscritti. Abbiamo deciso di eliminare la limitazione dello stagno per stare tutti insieme nel mare aperto.
Contrariamente a quanto si crede, la disabilità non è una malattia, ma è uno stato che ha origine dalla difficoltà di interagire con l’ambiente circostante con gli stessi strumenti e opportunità degli altri. Per questo, diversi interventi legislativi hanno definito l’inclusione come l’attribuzione e la fornitura di supporti necessari per mettere il disabile al pari degli altri, ponendo così fine anche a quella rilevanza che può derivare dalla riconoscibilità stessa della disabilità. Il tentativo c’è stato, ma ci sono state anche forti resistenze.
Ci può descrivere queste “resistenze”?
Direi che sono soprattutto legate a pregiudizi e a “leggende metropolitane”. Un esempio è dato dagli inserimenti lavorativi. Noi abbiamo una legge estremamente avanzata che permetterebbe, in teoria, una serie di opportunità realmente inclusive. Purtroppo, però, il suo articolato rimane costruito esclusivamente sulla fabbrica, come realtà di lavoro, e sul disabile fisico, come destinatario dell’intervento. Ma i dati statistici ci dicono che l’80% delle disabilità è di natura intellettiva e relazionale. Ecco perché una legge strutturata sulla disabilità fisica, per quanto buona, lascia in realtà scoperta la maggioranza dei disabili. La necessità di riformarla è riconosciuta da tutti, ma una resistenza a farlo davvero proviene soprattutto dal mondo imprenditoriale: inserire un disabile intellettivo è, infatti, molto più difficile perché comporta una riorganizzazione dell’intera realtà produttiva. Oggi, le nostre aziende, dovendo fare i conti con la concorrenza delle imprese straniere tradizionalmente più attente all’inclusione, mostrano di impegnarsi maggiormente in questo senso, ma talvolta è solo apparenza.
Anche il mondo dell’educazione e della scuola sta opponendo, purtroppo, molte resistenze: da bambino disabile ricordo di non aver mai avuto il problema di inserirmi o sentirmi parte di un gruppo, oggi le dinamiche sociali risentono di molti più fattori e ai ragazzini occorre insegnare l’attitudine all’inclusione. Ma molti insegnanti di sostegno, deputati a farlo, spesso svolgono il loro incarico soprattutto per accumulare punteggio in vista di una cattedra di ruolo, senza avere una preparazione specifica o al massimo dopo aver seguito un corso di formazione di una trentina di ore. Per non parlare della non corretta interpretazione della funzione stessa dell’insegnante di sostegno, che spesso finisce per diventare una sorta di assistente del bambino disabile. A questo si aggiunge il fatto che le famiglie, trovandosi di fronte a una organizzazione all’apparenza ben strutturata, non sono motivate a vigilare e a impegnarsi per ottenere il supporto di altri servizi, in una logica di miglioramento continuo dell’assistenza dei loro figli. La mancanza di questa spinta dal basso per l’acquisizione di nuovi strumenti e modelli di inclusione si traduce, alla fine, in una ulteriore forma di involontaria resistenza al cambiamento.
Di fronte a queste carenze, cosa fa la sua associazione per lavorare sul concetto di inclusione?
Noi siamo un’associazione diffusa in modo capillare sul territorio nazionale, e nei nostri quasi sessantacinque anni di storia abbiamo elaborato e studiato un nostro approccio alle questioni legate alla disabilità intellettiva. E lo facciamo proponendo sempre nuove iniziative. Una di queste è il progetto “Matrici”, un sistema modellizzato per la redazione di un progetto individualizzato, soggetto anche a implementazione e aggiornamenti, con la definizione dei percorsi abilitativi e dei sostegni che possono consentire a un cittadino disabile di esercitare pienamente i propri diritti civili all’interno di un insieme di regole e dinamiche realmente inclusive. Abbiamo poi lanciato l’iniziativa “AAA – Antenne Antidiscriminazione Attive”, per riconoscere e contrastare ogni forma di discriminazione nell’accesso ai servizi: un progetto che purtroppo ha messo in luce ancora troppe disparità spesso legate alla discrezionalità delle diverse ASL. La domanda che deve interrogarci tutti è: come possono essere ancora accettabili queste discriminanti? La nostra elaborazione culturale come associazione è indirizzata a trovare soluzioni e a costruire una serie di strumenti e di buone pratiche per supportare sempre di più e sempre meglio le persone con disabilità intellettiva e le loro famiglie, soprattutto in una prospettiva di medio e lungo periodo. Si tratta di un impegno complesso che incontra molte difficoltà: spesso questo tipo di elaborazione non viene ritenuta importante rispetto all’approccio focalizzato sul “qui e ora”, che non si preoccupa di che cosa succederà nel futuro. Eppure il futuro esiste, arriva, e presenta sempre il conto dei problemi irrisolti. Il cambiamento strutturale più importante, quello più atteso, può provenire soltanto da un vero salto culturale, che punti a trasformare radicalmente il modo di approcciarsi al “dopo di noi”, per una sempre maggiore autonomia delle persone disabili.
Quali sono oggi a Torino i nuovi bisogni di inclusione a cui la comunità deve rispondere?
Se partiamo dalla semplice considerazione di base che una persona con disabilità è una persona che ha il diritto di poter accedere a tutte le attività al pari degli altri, allora anche a Torino c’è bisogno di tutto. In primo luogo, visto che fino a qualche anno fa si dava per scontato che i disabili intellettivi non fossero abili al lavoro, oggi c’è bisogno soprattutto di una rivoluzione culturale che mandi definitivamente in soffitta questi vecchi schemi. In secondo luogo, è necessario un adattamento di tutto l’aspetto legislativo e normativo alla luce delle conoscenze che abbiamo della disabilità intellettiva e dei disturbi neuro-cognitivi. Intervenendo a proposito anche sul TSO, estremamente violento e da intendere come estrema ratio, mentre, grazie a un percorso di formazione rivolto a pubblici ufficiali e infermieri, si dovrebbero formare gli operatori pubblici per intervenire a monte del problema e non a valle in emergenza. In una prospettiva di autentica inclusione, c’è bisogno poi della corretta declinazione dei bisogni per giungere alla corretta declinazione dei supporti necessari, debitamente accompagnati dalle risorse che occorrono per garantirli. Dovremmo trarre ispirazione dalle Special Olympics, che non essendo competitive, a differenza delle Paralimpiadi, veicolano il messaggio veramente inclusivo: tutti i partecipanti hanno la loro quota di gloria per il fatto stesso di partecipare all’evento. Mettersi in gioco è molto più importante di competere per vincere.
Dal suo punto di vista, in che modo si può rendere il nostro sistema sociale più coeso ed efficace nel contrasto alle disuguaglianze?
Purtroppo, ci troviamo a vivere nel mercato delle fragilità, quasi poste in concorrenza tra di loro. È vero che le risorse non sono infinite, ma è anche vero che sono tante. Secondo me, la via da percorrere consiste nel ripensare un sistema di relazioni sociali che metta realmente al centro le persone con le loro specificità all’interno di un sistema economico che guardi sempre ai territori e al principio di coesione, senza rispondere soltanto all’élite finanziaria. Un intervento economico è indirizzato correttamente quando non sottrae, ma piuttosto restituisce qualcosa al territorio, assicurando un beneficio effettivo per la comunità e tutti i suoi membri, compresi quelli più in difficoltà. Solo così può essere costruito un sistema di supporto virtuoso che definisca nuovi modelli di produzione, ma anche di vita, che permettano di includere le varie fragilità. Oggi c’è bisogno di costruire un nuovo patto tra profit, non profit e istituzioni. Per un’azienda, la responsabilità sociale deve significare un consolidamento dell’impresa sul territorio e, al tempo stesso, un fattore di sviluppo per il territorio. La globalizzazione ha messo storicamente in crisi questo rapporto, ma ora lo stiamo recuperando.
Questo non significa autarchia: si tratta invece della riscoperta di un’autonomia che era andata “fuori mercato”. Riscoprire un modello di civiltà molto vicino a noi, attualizzato e interpretato secondo una prospettiva solidale, significa mettersi nella condizione di superare quella concorrenza tra fragilità diverse di cui dicevo prima, grazie proprio all’aiuto del sistema produttivo. Per fare tutto questo, c’è bisogno, però, di una classe politica che abbia studiato.
Cosa prevede per il futuro dell’inclusione?
Possiamo concludere con una serie di slogan. Il primo è “nulla su di me senza di me”, che è l’essenza della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
Il senso del nostro impegno come Anffas è che noi non ci fermeremo mai, nella consapevolezza, però, che da soli non possiamo vincere la battaglia dell’uguaglianza. La crescita culturale passa attraverso le scelte politiche ma, purtroppo, viviamo in una Regione, il Piemonte, che non ha investito niente per organizzare eventi culturali in relazione alla disabilità. Noi chiediamo delibere regionali che garantiscano sempre il principio della piena accessibilità a tutti gli eventi culturali nella sua accezione più ampia, e non solo le rampe per le carrozzine. Quando capiremo che la cultura deve essere fruibile da tutti, anche dai disabili intellettivi, faremo un grande passo in avanti. Chi lo nega sarà sempre un mio grande avversario, per dirla di nuovo con uno slogan.