“Se un giovane vivesse in un contesto che offre possibilità di bellezza, con iniziative ed eventi anche nelle periferie, questo avrebbe un impatto concreto e positivo sulla sua vita. In questo senso, il volontariato non è solo soccorrere chi sta male, ma mettere al centro anche lo sviluppo della cultura”
Componente del Consiglio Direttivo del Centro Servizi per il Volontariato Vol.To ETS, di cui è stato anche presidente, Gerardo Gatto è da molti anni impegnato nel mondo del volontariato, dopo essere stato dirigente amministrativo presso numerose aziende sanitarie e ospedaliere di Torino e provincia, docente presso l’Università di Torino nella facoltà di Medicina e direttore amministrativo dell’ospedale di Kidane Mehret in Etiopia. Attualmente è anche presidente del Banco Farmaceutico di Torino e presidente della neo-costituita associazione CSVnet Piemonte.
Quali sono oggi gli aspetti di inclusione sociale che, come associazione, state affrontando di più?
Partiamo da un dato importante: l’inclusione sociale ha come presupposto che l’altro sia un bene per noi. Gli aspetti dell’inclusione sociale con cui mi confronto maggiormente sono quelli che investono la disabilità, il lavoro e le differenze culturali. Per quanto riguarda la disabilità, stiamo cercando di far capire che l’inclusione è una questione soprattutto culturale. Soltanto la cultura improntata all’inclusione, infatti, fa sì che le barriere culturali non trasformino le disabilità in handicap.
Circa il lavoro, siamo impegnati per un cambiamento di paradigma: del lavoro non va considerato soltanto l’aspetto remunerativo, come se l’altro valesse solo nella misura in cui produce beni, ma anche quello del benessere della persona. Solo così si può evitare il rischio che alcune persone non vengano incluse.
Il terzo aspetto è quello delle differenze culturali. Di recente c’è stato il problema dell’accoglienza dei rifugiati ucraini, a cui abbiamo risposto con un impeto di generosità. Ma questo non è sufficiente: accogliere vuol dire anche fermarsi un attimo così da creare una distanza – in senso positivo – che consente di capire i bisogni dell’altro senza correre il rischio di proiettare quello che noi crediamo sia il bisogno della persona che accogliamo. Non basta la buona volontà, occorre essere disposti a imparare dagli altri: questo è uno dei primi fattori di inclusione.
Dal suo punto di vista personale, qual è l’esperienza di inclusione più significativa che ha vissuto o praticato?
Ho passato quattro anni in Etiopia, collaborando alla gestione di un ospedale in una missione salesiana e quello che mi ha segnato è il rapporto con la gente che viveva lì. Era una missione attiva da venticinque anni che ha portato alla fondazione di una scuola con milleduecento ragazzi. La grande idea di inclusione è che noi oggi siamo qui con lo scopo di non essere più necessari domani. Stando in Etiopia, ho anche imparato che nelle culture africane ci sono degli aspetti che noi Europei abbiamo perso, come il senso del tempo, dell’attesa e della contemplazione. Un’altra esperienza intensa che ho vissuto è l’attività di volontariato presso un doposcuola in una realtà dove si trovano diverse famiglie provenienti dall’Africa sub-sahariana, dalla Cina, dall’America latina. Quando è stato organizzato il presepe vivente a Natale, mi ha colpito che tanti bambini musulmani e cinesi si siano vestiti da angeli o pastori senza che nessuno avesse chiesto nulla, nonostante il gesto non appartenesse alla loro religione o tradizione. È indicativo del fatto che queste persone, pur arrivando da culture diverse, si sono sentite totalmente accolte.
Quali sono gli ambiti che a Torino necessitano di interventi di inclusione sociale?
Prima di tutto i giovani; l’educazione deve essere intesa non solo come istruzione, ma come strumento in grado di tirare fuori le potenzialità che ciascuna persona possiede. Importante, poi, è un’azione di riqualificazione delle periferie per poter vincere non solo il disagio giovanile, ma anche la solitudine degli anziani.
Queste sono delle priorità. Purtroppo, spesso il volontariato è considerato come un tappabuchi, mentre noi vogliamo essere fattori di costruzione. Se un giovane vivesse in un contesto che offre possibilità di bellezza, con iniziative ed eventi anche nelle periferie, la cosa avrebbe un impatto concreto sulla sua vita. Una persona non cambia perché gli fai una morale, ma perché è attratta. In questo senso, il volontariato non è solo soccorrere chi sta male, ma mettere al centro lo sviluppo della cultura. Anche per gli anziani, uno dei fattori che impedisce un invecchiamento attivo è la mancanza di luoghi di aggregazione, in cui sia possibile anche trasmettere il patrimonio di esperienza e saggezza tipico dell’anziano.
Ma soprattutto c’è bisogno di un cambiamento del paradigma economico: oggi l’economia è basata sul concetto di lavoro per il profitto e non per la persona, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il lavoro è, invece, il modo con cui, tramite un ideale, si costruisce un pezzo di mondo proiettandovi quello che si è. Perciò bisogna sviluppare un’economia sociale in cui il valore del lavoro non risieda solo nel PIL, ma nella felicità di chi lo svolge, con un particolare accento alla possibilità di esprimersi. Credo che questa sia una delle cose più urgenti. Devo però constatare che in Italia c’è soltanto una facoltà di economia sociale che insegna questo nuovo paradigma.
Dal suo punto di vista, in che modo la società può diventare più coesa per combattere le disuguaglianze?
Un ruolo molto importante è quello del Terzo Settore, che deve prendere coscienza del proprio valore di inclusione sociale e di creazione di tessuto sociale. Ad esempio, sfruttare il PNRR per poter dare risorse alle nuove modalità come le società benefit e le imprese sociali, ovvero tutte realtà che fanno del paradigma della sostenibilità il loro status. Pertanto, se il Terzo Settore inizia a capire che deve avere un ruolo da protagonista, questo può rappresentare il primo passo per iniziare a combattere le fragilità, le povertà e le incertezze.
Dall’altro lato i giovani devono essere educati a capire che non c’è più il cosiddetto “posto fisso” e devono essere aiutati a rischiare per diventare “imprenditori di loro stessi”. Il Terzo Settore ha un importante ruolo di “inculturazione”, volta a identificare sé stessi come fonte non solo di diritti, ma anche di doveri. Occorre giocare su una leva culturale: il lavoro va inteso come espressione di sé più che come sistemazione sociale. Occorre, infine, una valorizzazione concreta dell’invecchiamento attivo: ci sono tante persone ricche di esperienza che arrivano dal mondo del lavoro e che hanno molto da dare.
Ritengo che il Terzo Settore, dal volontariato alle cooperative sociali, debba imparare a farsi sentire per contaminare il non profit con la cultura della solidarietà e della gratuità, per portare una dimensione umana capace di costruire una società in cui le incertezze e la povertà possono essere diminuite.