“Includere per trovare opportunità affinché le interconnessioni che si vengono a creare producano valore e cambiamento.
Portando in emersione il sociale come bene comune e non solo come bisogno socio-assistenziale”
Mentre la tendenza attuale è sempre più quella di individuare macroaree di bisogni delle persone per rispondere con modelli di intervento già noti (insomma “cercare la ricetta giusta avendo un ingrediente noto”), la sfida vera diventa quella di lavorare per una piena valorizzazione delle loro peculiarità, anche a livello di organizzazione di competenze. Progetti come la Fondazione Accademia Maurizio Maggiora – ETS di Torino, polo specializzato nella gestione del cambiamento nel sociale e nelle organizzazioni, puntano proprio a occupare gli spazi lasciati liberi o messi a disposizione per cogliere le opportunità di produrre iniziative consolidate in relazione al vero bisogno del territorio coerentemente con la sua natura specifica. La Fondazione accompagna i giovani, gli Enti del Terzo Settore e le imprese nella costruzione di una mentalità manageriale responsabile e sostenibile, gestendo il cambiamento e orientandosi nell’esercizio della complessità. Volge lo sguardo a un nuovo modello di società nel suo insieme per trovare una soluzione più sistemica, anziché concentrarsi sul concetto di “ragazzo emarginato e bisognoso”. Federico Maggiora è fondatore e presidente della Fondazione Accademia Maurizio Maggiora – ETS
Cosa significa per lei il termine inclusione?
In chimica i composti di inclusione sono quelli in cui le molecole di un determinato componente occupano cavità originate da una particolare distribuzione delle molecole dell’altro. Per me inclusione significa occupare gli spazi lasciati liberi o messi a disposizione da altri soggetti per fare qualcosa assieme, comunicando e relazionandosi con ciò che è intorno per amplificare l’effetto e rafforzare il legame come quello tra le molecole. Non si tratta di uniformare tutti a fare le stesse cose, bensì, mantenendo le proprie peculiarità, di trovare degli spazi affinché le combinazioni che si vengono a creare producano valore, cambiamento. Si parla di inclusione ma in realtà sarebbe più appropriato chiamarla integrazione: ognuno possiede molte particolarità che devono essere valorizzate. Ognuno di noi ha un valore, un talento, un’opportunità: metterle assieme coordinandole genera valore, integrazione, inclusione e nuove opportunità per la società e, anche per i giovani.
Dal suo punto di vista, quali sono oggi i bisogni di inclusione a cui la comunità di Torino deve rispondere?
È importante integrare gli interventi senza uniformarli a sistemi preesistenti. Torino ha, purtroppo, ancora questa tendenza e tradizione: uniformare le persone al sistema. Il bisogno dell’inclusione è proprio questo: non uniformarsi ma lavorare affinché si abbia una valorizzazione delle peculiarità, anche a livello di organizzazione di competenze. La logica della valorizzazione del singolo individuo in un contesto più ampio è un bisogno primario. Importante è, poi, non appiattirsi, ovvero portare valore cercando di considerare quello che i singoli possono offrire e andare a consolidare questi progressi nel contesto cittadino. In ultimo, sarebbe utile riuscire a creare dei sovrasistemi che portino alla città un ulteriore valore. Si dovrebbe valorizzare il sociale come bene comune, non solo come bisogno socio-assistenziale. Sono queste constatazioni che prevedono il cambiamento di paradigma di una città che storicamente ha il sociale come DNA. C’è quindi ancora una profonda necessità di innovarsi e tanta strada da fare.
Una città che deve ritrovare il suo paradigma innovativo. Come può superare fragilità e incertezze?
Non ricercando l’alternativa alla manifattura o individuando un solo settore come risposta. La tendenza che è ancora in voga è quella di rintracciare qualcosa che sostituisca i vecchi fasti. Si deve, invece, cambiare questo approccio e adottarne uno improntato all’inclusione, valorizzando tutte le piccole eccellenze. Il tema della manifattura può diventare la base su cui costruire delle strutture sistemiche che vadano oltre al singolo contesto e guardino alla città come rete che si connette al mondo. Purtroppo, esistono ancora meccanismi che bloccano questo fenomeno cercando di mantenere uno status quo, meccanismi che devono essere abbattuti. Torino è sempre stata abile a cercare di fare squadra e di lavorare insieme. Il focus dovrebbe, però, spostarsi su che cosa si possa consolidare attraverso queste esperienze, metterle a fattor comune per creare sistemi multi-ambito che rendano più efficiente l’uso delle “risorse sociali”. Inoltre, è anche importante porre attenzione a cosa sia già consolidato affinché si evolva e si connetta con realtà situate oltre i confini regionali e nazionali.
Con l’Accademia il focus è sui giovani. Qual è il rapporto tra questi ultimi e le generazioni adulte?
Investire sui giovani è sicuramente importante ma, soprattutto, è strategico per una città e una comunità. I giovani rappresentano il presente e il futuro. Bisogna, però, porre l’attenzione anche all’ambiente in cui poi essi finiscono per operare. La scommessa della Fondazione Accademia Maurizio Maggiora va in due direzioni: innanzitutto, non più ricercare l’impatto sociale ma, piuttosto, entrare in una logica di una sua gestione affinché produca e/o inneschi un cambiamento successivo per vivere il presente e preparare il futuro al meglio, sulla scorta di quanto imparato attraverso le esperienze costruttrici di nuovi mindset. In secondo luogo, creare tali esperienze che possano per i giovani essere generatrici di “nuove mentalità”, lavorando insieme ai ragazzi in questa direzione. I soggetti dell’educazione hanno oggi perso questa capacità. Un esempio: negli anni Ottanta il volontariato era anche educativo, contribuiva al bagaglio di esperienze di un essere umano civile. Ora, invece, sembra quasi un’attività fuori dagli schemi, un riscoprire l’altruismo. Si sono persi valori al punto che molti di quei giovani che hanno riacquistato delle coscienze antiche non si riconoscono più in questa società. Abbiamo avuto molti volontari che hanno offerto il loro tempo e le loro competenze alla Fondazione, più in chiave didattica, pensando di interagire con “giovani bisognosi”, senza avere contezza di quanto i giovani siano desiderosi di “permearsi di sociale”, di costruirsi un mindset legato a questi valori affinché possano spenderseli anche in contesti aziendali, contaminandoli sempre più in chiave “S” dell’acronimo ESG (Enviroment, Social e Governance). Tale mindset si sviluppa attraverso “la trasmissione di esperienze”, il confronto di visioni, il farsi domande sulle strategie da intraprendere, lo sperimentare sul campo che solo chi lo “ha praticato” può trasmettere. Inoltre, i giovani vogliono conoscere la società, plasmare il loro futuro per come lo immaginano. Hanno “bisogno” di conoscenza, di vivere spazi, luoghi o ambiti dove sperimentare; hanno il desiderio di sentirsi parte di qualcosa in cui riconoscersi, non per forza costruito da altri. Tutti elementi che caratterizzano la Fondazione, improntata sul mentoring e sul valore generabile attraverso il training on the job.
Qual è il vostro obiettivo?
Costruire nei giovani il mindset sopra citato e rendere le organizzazioni più giovani-centriche. Non possiamo però fermarci qua: fondamentale sarebbe iniziare a lavorare anche sugli adulti. In fondo significa generare inclusione intergenerazionale, che genera cambiamento a 360° in tutti i soggetti coinvolti. La sfida della Fondazione è essere scollegati dal ragazzo bisognoso per iniziare a creare un nuovo concetto di società. Inoltre, far cambiare prospettiva alle aziende, le quali hanno sempre una tendenza, quella di legare all’aggettivo sociale il termine charity senza concepire una visione più ampia, ovvero quella di società civile a prescindere. Per questo, risulta chiave il tema del mentoring, che preferiamo rispetto a quello della formazione, perché risponde più al ruolo di guida, confronto, supporto alla crescita, dove la formazione diventa esperienza. Attualmente, non ci sono più punti di riferimento, dobbiamo perciò cercare di cambiare il sistema. Le nuove generazioni sono pronte, forse le organizzazioni sia for profit sia non profit meno.