“Abbiamo messo al centro la co-progettazione perché riteniamo che già nel pensare prodotti e servizi si possano attivare i meccanismi veri dell’inclusione”
Hackability è una associazione non profit che mette insieme l’innovazione a impatto sociale con la creatività di designer, maker e artigiani per sviluppare oggetti di uso quotidiano per persone con disabilità sfruttando le potenzialità della fabbricazione digitale: i prototipi degli oggetti vengono rilasciati on-line, in open source, per garantire la loro riproducibilità, opportunamente customizzata, su larga scala. L’associazione è impegnata nella ricerca di soluzioni che siano non solo riproducibili, ma anche accessibili a tutti. Nel 2035 il 34% della popolazione italiana avrà, per la prima volta, più di 65 anni e arriverà al 36% entro il 2050. Una rivoluzione epocale che porterà a ridefinire il concetto di inclusione in relazione non solo ai diritti ma anche ai consumi. Anche il semplice invecchiamento implica infatti alcune forme di disabilità. Pensiamo, ad esempio, alla forza che ci vuole per aprire una semplice bottiglia d’acqua. Ne parliamo con Carlo Boccazzi Varotto, ricercatore economico di formazione, founder di Hackability.
Cosa significa per lei il termine inclusione?
È una parola dal significato sfuggente, composta da due anime, una culturale e l’altra economica. Noi viviamo in un mondo che, negli ultimi due secoli, si è basato sulla produzione di massa. Un modello che ha sicuramente avuto enormi vantaggi ma che ha anche definito e raffigurato un essere umano di riferimento: una sorta di uomo vitruviano, un prototipo che vive, consuma e si approccia all’ambiente seguendo uno schema predefinito. Tutto ciò che non corrisponde a questo schema non trova nella società dei consumi e dei suoi servizi una propria collocazione. Questo sistema, secondo noi, sta saltando per almeno due motivi. Innanzitutto, grazie al progresso medico, viene riconosciuto un numero sempre maggiore di disabilità e persone che, per definizione, non rispondono al disegno vitruviano del consumatore di massa. L’altro fenomeno che ci obbligherà a rivedere il nostro concetto di inclusione ed esclusione è l’invecchiamento, che è fortemente correlato all’aumento delle disabilità: nel 2035 il 34% della popolazione italiana avrà, per la prima volta, più di 65 anni e arriverà al 36% entro il 2050. Questa è una rivoluzione epocale che ridefinirà lo schema stesso del lavoro e del tempo fuori da lavoro. Il concetto di inclusione deve quindi essere rivisto in relazione non solo ai diritti, come è ovvio e doveroso, ma anche ai consumi e alla coesione sociale e questo, forse, è meno ovvio.
Considera quindi il tema dei consumi un alleato al processo di inclusione o un meccanismo capace di accentuare le disuguaglianze?
Dipende dalla strada che sceglieremo. Da ottimista penso che possa essere un alleato. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione e le sue ricadute economiche sono potenzialmente un elemento utile per rendere la disabilità una dimensione normale della nostra esistenza: fino a dieci anni fa gli scooter elettrici da esterni venivano individuati come elemento stigmatizzante, è probabile che tra vent’anni non lo saranno più. Di questo il mercato non può non tenerne conto: quel 34% della popolazione di cui parlavo prima è anche un grande mercato e questo potrà contribuire a creare una convergenza di interessi socio-economici verso il tema dell’inclusione. Se la diversità diventa un fenomeno di massa non può più essere sinonimo di marginalità. Abbiamo, ad esempio, sviluppato un grosso progetto con Toyota, il cui intento è quello di immaginare delle automobili che le persone possano guidare fino a un’età avanzata. Da un lato abbiamo un’azienda che vuole vendere automobili allargando il suo pubblico e mercato potenziale, dall’altro c’è un grande tema legato all’impatto sociale di questa innovazione tecnologica, che come molta innovazione dovrebbe diventare accessibile anche economicamente: se, infatti, le persone anziane sono autonome, ne giova tutta la società.
Esiste quindi un rapporto molto stretto tra innovazione e inclusione?
C’è per alcuni motivi: il primo è che oggi l’accesso tecnologico sta diventando un diritto fondamentale delle persone e una discriminante importantissima nel rapporto con gli altri. Questo è stato reso evidente durante il lockdown: chi non aveva accesso a mezzi tecnologici digitali viveva non solo uno stato di solitudine accentuato, ma incontrava anche difficoltà di accesso a prodotti e servizi. Dall’altro lato, le nuove tecnologie ci danno la possibilità di creare prodotti personalizzati, rompendo lo schema degli standard e trovando applicazioni immediate nei confronti di chi ha bisogni speciali. La tecnologia ci permette di destandardizzare un prodotto, mantenendo potenzialmente gli stessi flussi. Si potrebbe quindi parlare di una sorta di tecnologia su misura, il neoumanesimo digitale al servizio dell’inclusione.
Dal suo punto di vista, come sono cambiati i bisogni di inclusione negli ultimi anni a Torino?
Torino è una città in grande trasformazione. Ha due grandissime tradizioni: l’inclusivismo della cultura progressista di sinistra e la tradizione del cattolicesimo sociale, stili di vita più che posizioni politiche, fortemente radicati nelle persone e in quello che fanno per gli altri. In ragione di questa sorta di doppia anima, Torino è una città che ha sempre avuto una grande attenzione verso il tema dell’inclusione sociale. Tuttavia lo fa, talvolta, assumendo un atteggiamento di pietismo, guidato da un approccio esclusivamente etico, morale e assistenzialista. Questo fa sì che ragionare in termini di rapporto economico tra mercato e inclusione possa risultare talvolta difficile. Detto questo, noi siamo nati qui e non è un caso trovando un terreno di cultura fertilissimo soprattutto nelle università e nel sistema formativo.
L’inclusione quindi come fattore competitivo.
Assolutamente sì. Non si tratta solo di un problema di giustizia, l’inclusione diventa sempre di più un fattore competitivo importante. Lo è per le imprese, lo è per l’impatto sociale nei consumi, lo è nel rapporto tra individui e comunità.
Il grande discrimine del concetto di inclusione è la differenza tra “sentirsi dentro ed essere fuori”. Ci può raccontare un’esperienza di esclusione a cui ha assistito?
Fino a pochissimi anni fa, prodotti e servizi venivano progettati per le persone e non con le persone. Era evidente la marginalizzazione del consumo che escludeva intere fasce sociali. Noi veniamo da una cultura del design e dell’ingegneria che escludeva invece di includere. Questo è il passato. Negli ultimi anni siamo passati alla cultura dell’interfaccia digitale che sta contaminando il mondo del design e dell’ingegneria. I meccanismi quotidiani del nostro agire riguardano proprio l’essere inclusi o meno all’interno dei percorsi di progettazione del prodotto finale.
Per questo motivo, noi abbiamo messo al centro la co-progettazione, perché pensiamo che già nel pensare prodotti e servizi si possano attivare i meccanismi veri dell’inclusione.