“Animale sociale e simbolico, l’essere umano ha bisogno di fruire, esprimersi e creare significati attraverso azioni che coinvolgano altri esseri umani e che interagiscano con lo spazio e l’ambiente in cui abita”
Direttrice e creatrice del Social and Community Theatre dell’Università di Torino, Alessandra Rossi Ghiglione è supervisore scientifico di SCT Centre e responsabile delle aree Education, Research and Evaluation. Professore a contratto presso l’Università di Torino, è ideatrice, regista e project manager di progetti di ricerca applicata, progetti culturali e sociali su arti performative, benessere e società inclusive.
Una sua personale definizione di inclusione?
Ho l’impressione che non abbiamo in italiano una parola adatta a descrivere l’azione che consente a tutte e tutti con la propria specifica differenza – di genere, di cultura, di età, di provenienza, di lavoro, di salute e non solo- di essere parte riconosciuta e attiva di una condizione di uguaglianza di diritti, di opportunità e di rispetto reciproco. Non è una questione di ‘cerchio’ rispetto a cui portare dentro qualcuno che è fuori da parte di qualcuno che è già dentro, ma ha più a che fare con una azione di immaginazione di nuove forme delle relazioni. Si tratta di ripensare proprio la forma del cerchio, riguarda la capacità di creare una forma aperta di appartenenza e mutuo riconoscimento che si definisce non ‘per’, ma ‘con’ tutti e tutte coloro che ne sono di fatto parte di diritto in quanto abitanti di un contesto ed esseri umani dotati di diritti universali.
Dal suo osservatorio personale e professionale quali sono oggi i nuovi bisogni di inclusione a cui la comunità di Torino (e non solo) deve rispondere?
Una riflessione sull’inclusione oggi, nella città di Torino come in ogni altro luogo in Italia e nel mondo, non può fare a meno di confrontarsi con il dato crescente delle disuguaglianze – economiche, sociali, di salute, di opportunità – che negli ultimi tre anni ha avuto un’impressionante accelerazione. I bambini, i giovani e le donne, come emerge dai dati degli osservatori nazionali, sono le persone che più hanno pagato il prezzo di questi anni di crisi, prima sanitaria, poi economica, ora legata alla guerra. A Torino mi colpisce molto la situazione delle famiglie con minori che sono precipitate in uno stato di necessità. Sono i bambini, come emerge anche dai recenti dati dell’osservatorio della Caritas, che rappresentano la popolazione che paga il prezzo più alto di queste nuove povertà. E poi ci sono gli adolescenti e i giovani. Gli adolescenti, in particolare, in grande sofferenza dopo la DAD, dentro a un sistema scolastico che fa fatica a supportare il loro benessere – mentre anche il benessere degli insegnanti è in crisi -, e che non è in grado di offrire forme di apprendimento inclusive ed efficaci nel promuovere i diversi talenti e sostenere le fragilità. In un momento fondamentale della vita, gli adolescenti e i giovani si ritrovano immersi in un discorso sociale che non è in grado di ‘immaginare il futuro’, che non ha speranza nel futuro. Questo insieme di fattori sta creando situazioni gravi di autoisolamento, di autolesionismo, di comportamenti anticonservativi e di aggressività, che rappresentano la punta dell’iceberg di un generale smarrimento di senso della vita e di profondo malessere mentale e sociale. A questo possiamo aggiungere la fatica delle giovani coppie a costruirsi un futuro poiché mancano le condizioni fondamentali, come la casa, il lavoro etc.
È come se stessimo escludendo una intera generazione dal diritto al futuro. È davvero un problema di inclusione?
No, è un problema di contrasto alle disuguaglianze e diritto alle pari opportunità. C’è un altro contesto che conosco bene a Torino, ed è quello della cura. Penso in particolare ai carer, cioè a tutti coloro che si occupano della cura sociale, educativa o sanitaria, carer formali, come gli insegnanti e gli operatori sanitari, e carer informali, come le famiglie. C’è assoluto bisogno del riconoscimento del valore sociale di questi ruoli professionali e sociali che consentono alla nostra società di esistere e di prendersi cura di fragilità e bisogni fondamentali dell’esistenza umana. E c’è soprattutto necessità di immaginare nuovamente la cura, includendo tutti gli attori che ne fanno parte. È solo coinvolgendo le famiglie di chi vive con una persona che ha una condizione di fragilità di salute cronica che è possibile immaginare servizi e opportunità di salute accessibili e adeguati per tutte e tutti. Penso alla grande opportunità offerta dalle Case di Comunità, spazi di prevenzione e cura che possono diventare luoghi di una nuova società della cura circolare e inclusiva, grazie alla collaborazione di cittadini e associazioni dei territori, e anche attraverso l’arte e la cultura.
In che modo la cultura e l’arte promuovono la riduzione delle disuguaglianze e incentivano la coesione tra le persone, anche molto diverse tra loro?
Quale sia e quanto sia centrale nel benessere psicosociale e fisico delle persone e delle comunità la vita di relazione e culturale attraverso la partecipazione sociale live e attiva, lo ha dimostrato con evidenza il Covid19. Animale sociale e simbolico, l’essere umano ha bisogno di fruire, esprimersi e creare significati attraverso azioni che coinvolgano altri esseri umani e che interagiscano con lo spazio/ambiente in cui abita. La pandemia ha avuto un impatto negativo maggiore sulla salute di coloro che vivono in condizioni di svantaggio e di vulnerabilità, e per i quali l’assenza di accesso, opportunità e capacità sociali e culturali è maggiore. Su questi temi di particolare rilevanza si sviluppa la pubblicazione da parte dell’OMS Europa di una ricerca intitolata Health Evidence Network synthesis report 67. What is the evidenceon the role of the arts in improving health and well-being? A scoping review, a cura di Fancourt e Finn. Si tratta di una revisione della letteratura mondiale degli ultimi venti anni. Nella ricerca viene affermato il contributo delle arti sulla salute mentale e fisica nei quattro ambiti della prevenzione, promozione, gestione, trattamento e si invitano le politiche sanitarie a tenerne conto. I benefici delle arti considerate (performative, visive, letterarie, digitali) sono riscontrati sia nella partecipazione attiva, sia nelle forme passive e spettatoriali. La dimensione partecipativa, quella in cui la persona ha un ruolo attivo nel processo creativo dentro all’azione artistica, è quella che ha un impatto maggiore. L’efficacia delle pratiche artistiche è ricondotta a tre caratteristiche principali: la prospettiva olistica, la dimensione multimodale, la capacità di collegare la dimensione della salute individuale con il contesto sociale.
Le arti, dunque, favoriscono processi di inclusione e socializzazione. Può spiegarci in che modo?
Perché promuovono la partecipazione universale grazie alla accessibilità dei linguaggi simbolici e, insieme, supportano il benessere emotivo e la autoregolazione emotiva. Sono anche in grado di integrare i percorsi di cura andando a rafforzare le capacità di autoguarigione e intervenendo su aspetti specifici di salute. Infine, stimolano e supportano le capacità di apprendimento e l’utilizzo di quelle risorse che restano sullo sfondo nella vita di ogni giorno per le abitudini o i limiti imposti dalla vita quotidiana. In una prospettiva “salutogenica”, che si preoccupa di promuovere le risorse di salute delle persone, le arti vengono riconosciute per la capacità di incidere sui determinanti sociali e culturali della salute. Sia nell’ambito della promozione che del trattamento, oggi il teatro è una pratica particolarmente efficace in importanti sfide relative al benessere sociale ed educativo. Gli impatti specifici che il teatro produce riguardano: il potenziamento delle life skills (con particolare riguardo a empatia, comunicazione efficace, gestione delle emozioni e collaborazione) e delle competenze mnesitiche e cognitive, lo sviluppo di social value e capitale sociale, la riattivazione fisica organica e l’integrazione corpo-mente, l’inclusione e accettazione della diversità, la riflessione etica e il potenziamento dell’appendimento critico, la promozione della resilienza e la gestione dello stress.
Esiste quindi una specificità della dimensione teatrale nella definizione degli impatti?
Nella sua matrice antropologica originaria il teatro unisce dimensione rituale, ludica e simbolica ed è costituito da un complesso dispositivo culturale multimodale e multilinguistico che favorisce la partecipazione culturale attiva e mette in movimento – sia nell’esperienza del teatro agito (teatro da fare) che in quella del teatro visto (teatro da vedere) – molte dimensioni dell’uomo, a più livelli (sensazioni, emozioni, cognizioni, relazioni) e tra loro le pone in una connessione dinamica. Tale dispositivo teatrale ha origine nel mondo greco, dove il teatro era insieme processo di cura sociale e civile e arena pedagogica e andragogica. Le pratiche teatrali contemporanee, orientate al benessere, alla salute, all’inclusione e coesione sociale, hanno le proprie radici nella rivoluzione teatrale del Novecento, che ha recuperato e innovato i principi del teatro. La ricerca teatrale dei maestri pedagoghi del Novecento ha riportato l’attenzione sulla dimensione etica del teatro e il suo ruolo nella comunità, sulla capacità di costruire gruppalità e di essere ponte fra le diverse culture. Parallelamente, il ricco repertorio di pratiche corporee, psicofisiche e relazionali di allenamento che è stato elaborato è diventato la base di tutte le attuali tecniche utilizzate nel teatro, che si propone di esercitare un impatto sociale. Oggi il Teatro Sociale in Italia raccoglie l’eredità del teatro del Novecento nella sua funzione di cura e care sociale.
Può raccontarci come si svolge la sua esperienza di Teatro Sociale?
Il Teatro Sociale e di Comunità è uno specifico approccio teatrale messo a punto da SCT Centre Università di Torino nei prima anni Duemila, in cui la pratica attiva del teatro coinvolge non attori – di ogni età, professione, background – e offre loro un’esperienza creativa, che è insieme crescita umana personale, sviluppo di legami sociali, formazione di competenze e promozione del benessere e della salute di coloro che vi prendono parte. Nel setting del laboratorio, i partecipanti vengono coinvolti, attraverso pratiche di autoconsapevolezza psicofisica, di allenamento fisico ed espressivo – il cosiddetto training –, in esercizi e giochi che favoriscono la fiducia, l’empatia e la collaborazione creativa di gruppo; vengono ideate e messe in scene situazioni con personaggi e ruoli diversi; vengono stimolate l’immaginazione, l’immedesimazione e la narrazione. Questa ricca e complessa stimolazione multimodale consente, fra l’altro, l’allenamento e il potenziamento del senso di autoefficacia, delle competenze relazionali e comunicative e la creatività, intesa anche come problem solving e capacità di intuizione. Tutte competenze preziose, che sono declinabili nella vita e nel lavoro. La specifica ricerca metodologica e valutativa sviluppata da SCT Centre con l’Università di Torino a partire dai primi anni Duemila in partnership con istituzioni della sanità, del sociale, dell’educazione e sperimentata in molti contesti locali, nazionali, europei e internazionali, costituisce oggi un patrimonio intersettoriale in grado di raccogliere sia le sfide relative all’inclusione sociale e al benessere delle comunità, come indicato dall’Agenda Europea per la Cultura del 2018, sia quelle più recenti relative al contrasto alle disuguaglianze originate dalla pandemia.
Ci può parlare dei progetti che avete portato avanti?
Nel corso di venti anni di storia, Social Community Theatre Centre ha realizzato più di un centinaio di progetti a Torino, in Italia, in Europa e in Africa, coinvolgendo migliaia e migliaia di persone di ogni età, cultura, identità di genere, provenienza e professione. Si tratta di un vero patrimonio di esperienza nei mondi della cultura, dell’educazione, della salute, della cittadinanza attiva, della sostenibilità ambientale e di molto altro. Spettacoli, laboratori, parate, performance site specific, ricerche, studi comparativi, corsi di formazione professionale e formazione accademica. E soprattutto volti e storie di vita di uomini e donne che, attraverso la pratica del teatro, hanno scoperto risorse nascoste e costruito nuovi legami. Il coro teatrale Bread and Roses è una delle esperienze più recenti, e forse più piccola rispetto ad altri grandi progetti europei e nazionali, ma la ritengo molto significativa. È un coro di donne di diverse culture, età, professioni, provenienze che prende il nome da un “canto cantato” per la prima volta dalle operaie nel primo sciopero femminile dei primi del Novecento. Il canto si intitola “Bread and Roses” e racconta la richiesta che le donne fanno di pane, come simbolo del lavoro e del diritto alla sopravvivenza, ma anche delle rose, simbolo della bellezza e del diritto alla felicità e a tutto ciò che non è mera sopravvivenza, rivendicando anche la capacità delle donne di agire per e a sostegno degli uomini.
Il coro teatrale lo possiamo definire un progetto di inclusione che mette insieme bisogni e aspirazioni.
Bread and Roses nasce nell’ambito di un progetto europeo sulla cultura e l’inclusione sociale, che SCT Centre ha ideato e realizzato con altri 11 partner europei tra il 2016 e il 2019, e che ha Torino si è realizzato nella zona di Aurora. In origine, il coro ha coinvolto donne seguite dai servizi sociali del Distretto Sociale Barolo insieme alle operatrici di questi servizi, a volontarie e a studentesse universitarie; oggi è aperto a qualunque donna interessata e coinvolge giovani universitarie, donne adulte che provengono dal centro di Torino così come da quartieri periferici. È diventato uno spazio di incontro al femminile, di apprendimento e di piacere per conoscersi fra donne e condividere, insieme al piacere del canto, anche le prospettive che ciascuna ha su questioni diverse che riguardano la vita delle donne, sulla base della propria esperienza. Per compagni, mariti, figli, il coro è anche un simbolo concreto del valore sociale e pubblico delle loro madri, mogli, sorelle: persone che, oltre ai ruoli familiari, hanno una propria identità sociale altra.
Un’esperienza che ha cambiato anche alcuni legami nelle famiglie, facendo scoprire nuovi valori e rapporti. Il coro, che ha avuto poi negli anni il sostegno dell’Università di Torino e della Compagnia di San Paolo, è stato oggetto di valutazione da parte dell’Università per misurane l’efficacia in termini di socialità e inclusione e di supporto alle competenze che facilitano le donne, migranti e non, nell’inserimento lavorativo.
La letteratura scientifica ha ampiamente dimostrato il valore del canto corale nello sviluppo di molte competenze utili alla vita. Oggi il coro si trova ogni venerdì in Spazio BAC-Barolo Arti con le Comunità – lo spazio gestito da SCT Centre in Aurora, e sta costruendo un repertorio di canti diversi anche grazie al coinvolgimento di molti maestri con cui lavora. Oltre al percorso settimanale, in occasioni diverse di festa e spettacolo, il coro porta le proprie canzoni e la propria identità sul territorio, proponendo ad ogni incontro con nuovi pubblici e nuove comunità, che sia in una libreria come in una festa di quartiere o sul palco di un festival, il valore delle donne e dell’arte nel contribuire a una società più equa e più solidale e attenta alla bellezza come risorsa di vita.