“La musica riesce a dare un senso di appartenenza a un gruppo, perché è gioco e scoperta. Mi faccio raccontare le storie dai bambini e le cantiamo assieme per capire se ci sono e quali sono i punti critici all’interno del loro percorso di crescita”
Trovare un pianoforte, caricarlo su un pick-up e girare il Ruanda suonandolo nei villaggi. Per poi lasciarlo lì a disposizione dei ragazzi. Perché lavorare con la musica con i giovani, in territori di guerra come negli ospedali, significa potere cambiare non solo il loro destino ma quello delle generazioni che verranno dopo di lui. Classe 1999, Pietro Morello è un tiktoker torinese da oltre due milioni di follower, oltre che un musicista. Ha avviato diversi progetti di musicoterapia negli ospedali prendendo parte a missioni umanitarie.
Ci parla delle sue missioni umanitarie e di come lavora con la musica in queste situazioni?
Quando ero diciottenne, ho cominciato a svolgere le mie prime missioni in Romania, al confine con l’Ucraina. Queste attività mi sono servite per avvicinarmi al mondo dell’infanzia e a quello che ti può restituire. Ho poi iniziato le missioni in Kenya con il progetto “Una mano per il sorriso”, per poi dedicarmi alla musicoterapia, intesa come il modo in cui la musica entra a far parte del rapporto con i bambini, anche nelle missioni umanitarie a cui prendo parte, che si focalizzano sul recupero dell’infanzia attraverso un percorso di individuazione di casi critici in cui i diritti sono negati per restituire loro il gioco, la scuola e l’ospedalizzazione. Proprio in ospedale svolgo parte dei miei percorsi di musicoterapia come, ad esempio, presso il piano oncologico dell’Ospedale Regina Margherita di Torino. Il mio metodo consiste nel farmi raccontare le storie dai bambini, disegnarle e cantarle assieme, con lo scopo di individuare quali sono i punti critici all’interno di quei loro percorsi. Ho raggiunto con il tempo la consapevolezza di svolgere questa attività per esigenza mia personale, e con molta lucidità sono riuscito a riconoscere quello che molti missionari non vogliono vedere: tutti noi lo facciamo con egoismo, ma si tratta di un egoismo positivo che non arreca alcun danno al mondo, un egoismo che anzi fa del bene. Prima di tutto, quindi, lo facciamo perché ci fa stare bene. Svolgo questo lavoro con i bambini proprio perché mi dà benessere e mi insegna tanto.
In che modo la musica può contribuire in futuro a creare maggiore inclusione?
La musica è un concetto astratto che contiene troppe definizioni, è un modo di comunicare che non può essere spiegato. Quello che mi interessa, è il fatto che la musica riesce a dare un senso di appartenenza a un gruppo perché è gioco e scoperta, è avanguardia e sperimentazione.
Queste attività permettono anche di scoprire una passione e, dunque, un lato di noi stessi.
L’individuazione di un talento è un principio fondante del lavoro di qualsiasi associazione che funzioni. A noi non interessa determinare delle meritocrazie e portare avanti solo chi riesce. Il nostro scopo è, invece, quello di dare a tutti gli stessi strumenti e fornire la possibilità di essere tutti allo stesso livello. Questa è la scuola.
Per combattere le disuguaglianze, la povertà e le incertezze della nostra società che cosa si dovrebbe fare?
Il miglior modo per combattere le disuguaglianze è quello di rendere tutti consapevoli che le disuguaglianze esistono. E colpiscono soprattutto i bambini che subiscono la guerra in modo ancora più grave degli adulti: ci sono tanti bambini che non vengono nutriti e che non giocano. Ed è proprio lavorando sui bambini che si può cambiare la realtà: un bambino che cresce con un’idea corretta avrà a sua volta un figlio che crescerà con un’idea corretta.
Dal suo osservatorio personale e professionale, quali sono i nuovi bisogni a cui la città di Torino deve rispondere?
A Torino, come nel resto d’Italia, manca un senso di appartenenza al mondo, insomma siamo ancora troppo legati al nostro territorio. Trovo vergognosa l’abnegazione con cui tutti noi abbiamo accolto la popolazione ucraina qua in Italia. Mi spiego: sono stato in missione al confine con questo Paese ma trovo incredibile l’indifferenza che abbiamo avuto per le altre guerre, quelle che si combattono da vent’anni in Congo e in Siria per esempio. Ma siccome in Ucraina sono uguali a noi, allora li accogliamo più facilmente. Questo modus operandi deve essere sradicato per attuare una politica di accoglienza molto più seria. Non so dire quali siano le politiche attuabili per migliorare questo genere di atteggiamento, però so dire che non ci sono persone migliori e peggiori, non ci sono questioni da affrontare prima e questioni da affrontare dopo. Questo tipo di visione è completamente sbagliata.
Con quale associazione opera nello svolgimento delle missioni umanitarie?
Opero tramite ‘Una Mano per un Sorriso’ in Kenya, e ‘Okapia’ in Ruanda e Congo.
Ha mai pensato di creare un’associazione sua?
Per il momento non ne sento il bisogno.
Vuole raccontare un’attività svolta o un’esperienza particolarmente importante?
A novembre, abbiamo preso un pianoforte a Torino, lo abbiamo messo su un pick-up e abbiamo girato tutto il Ruanda suonandolo in villaggi, attorno a laghi e vulcani. Tutto questo è contenuto in un documentario che racconta quanto e come la musica possa andare ovunque. Quel pianoforte è rimasto in Ruanda e riceviamo ancora i video dei bambini che lo suonano.