Menu Close

Portavoce Forum Terzo Settore Piemonte

ANNA DI MASCIO

“Spesso noi lavoriamo per le persone ma non con le persone.
Inclusione significa percorrere strade che consentano a tutti i soggetti coinvolti di stare insieme all’interno di un percorso che li riconosca nello specifico dei loro bisogni e delle loro attitudini”

Il Terzo Settore è indispensabile alla creazione di processi di inclusione all’interno delle nostre comunità. Eppure la mancata attuazione della riforma e la mancanza di una visione d’insieme condivisa con la Pubblica Amministrazione rischia di vanificare tutti gli sforzi fatti sino ad oggi. Ne parliamo con Anna Di Mascio, Portavoce del Forum Terzo Settore Piemonte.

Cosa significa per lei il termine inclusione?

Attivare dei processi di accompagnamento per le persone che sono più vulnerabili di altre e che per motivi anche molto diversi tra loro hanno meno capacità personali e relazionali per poter fare da sole. Il concetto di inclusione deve essere declinato e definito all’interno di un percorso di accompagnamento in un’ottica che potremmo definire di empowerment di ogni singolo individuo. Purtroppo, ancora oggi, molto spesso si confondono i teoremi della progettazione teorica piovuta dall’alto, senza mai considerare e ascoltare le reazioni delle comunità. Spesso noi lavoriamo per le persone ma non con le persone. Il senso dell’inclusione è percorrere strade che consentano a tutti i soggetti coinvolti di stare insieme all’interno di un percorso che li riconosca nello specifico dei loro bisogni e delle loro attitudini.

Quali sono i nuovi bisogni di inclusione a cui una comunità come quella di Torino deve rispondere?

Un tema difficile da affrontare riguarda i bambini e gli adolescenti e il contesto sociale, economico e culturale delle famiglie dove vivono. Guardare a loro significa capire i nuovi bisogni del nostro tempo, che poi si esplicano sui temi classici della disuguaglianza che sono la qualità dell’abitare, la solitudine, l’accesso ai servizi, la mancanza di spazi della socialità, la povertà. Si parla molto poco dei migranti, soprattutto di quelli che non vediamo più perché inseriti nelle cosiddette fasce di clandestinità. Se non li vediamo, semplicemente per noi non esistono. Ma sappiamo benissimo che non è così. Per non parlare delle seconde generazioni, i nati in Italia da genitori immigrati verso i quali sarebbe importante avere un’attenzione in più. Escluderli dalla cittadinanza è un controsenso civico e provoca emarginazione, incomprensione, rabbia. Se poi guardiamo al rapporto dei giovani con il lavoro, dovremmo sapere interpretare meglio il modo in cui si stanno trasformando le vecchie forme organizzate del lavoro rispetto ai bisogni e ai desideri progettuali dei nostri ragazzi. Il mondo del lavoro sta cambiando, e non sta cambiando in meglio. E questo i giovani lo sanno.

Un contesto sociale che sia attento a creare una società più giusta, coesa e attenta a combattere le disuguaglianze, secondo quali criteri dovrebbe agire?

Dovremmo avere una visione condivisa sul futuro delle nostre comunità, i nostri luoghi e i nostri spazi di vita: se non riusciamo ad averla, trovo che declinare delle azioni e delle politiche realmente efficaci sia molto difficile. Torino è una città che cerca di impegnarsi: ha molte risorse materiali e immateriali da mettere in campo, ma non bastano mai di fronte all’esplosione delle disuguaglianze e del disagio sociale. E il costante tentativo da parte dei vari governi che si sono succeduti, di standardizzare i servizi ad es dell’area dell’integrazione socio-sanitaria , oppure di scambiare servizi sociali con voucher (denaro) non porta risultati positivi. Serve una politica trasversale capace di mettere insieme i luoghi dell’abitare, gli spazi per i giovani, la cultura, lo sport, la salute, il riconoscimento delle disuguaglianze, l’accoglienza delle differenze: è per questo che dovremmo avere una visione d’insieme, un grande progetto di comunità per immaginare il futuro attenti alle esigenze di ogni singolo individuo. Quello che manca oggi è proprio l’assenza di una visione e di immaginare come ci piacerebbe vivere, come possiamo manifestare la qualità delle relazioni tra le persone, come possiamo creare bellezza per i nostri luoghi e spazi. E poi dobbiamo imparare a fare i conti con il tempo. Noi non lavoriamo mai su prospettive di lungo termine, i nostri progetti sono sempre limitati, non si sa mai se ci sarà continuità e per questo troppo spesso falliscono.

Quale ruolo può avere il Terzo Settore?

Il Terzo Settore è citato molto spesso e altrettanto spesso viene dimenticato, malgrado i dati Istat certifichino la sua importanza crescente all’interno del tessuto sociale ed economico del Paese. Tutto questo succede mentre siamo da troppo tempo immersi dentro l’iter di una legge di riforma che non si è ancora concluso: non abbiamo chiarezza sugli elementi fiscali che dovranno governare il non profit e questa mancanza di chiarezza sta legittimando una sorta di grande indifferenza nei nostri confronti, dall’altra ci mette in una condizione di precarietà rispetto alle norme che dovranno governare il nostro settore. Alcune associazioni, ad esempio, stanno decidendo di non iscriversi al registro unico, altre invece si sono iscritte con poca consapevolezza degli obblighi a cui vanno incontro.

Intanto gran parte del Terzo Settore, soprattutto il volontariato, svolge funzioni che l’intervento pubblico non riesce più a tutelare e garantire.

Sicuramente è così. E si sta riducendo il numero di persone che decidono di svolgere attività volontarie. Questo è figlio di una sorta di delegittimazione pubblica. L’esigenza di andare a normare questo mondo, se si scontra con una lentezza burocratica e una non attuazione delle norme principali anche da parte delle Pubbliche Amministrazioni, rischia di portare il Terzo Settore alla sconfitta.

Le professioni sociali, educative, sanitarie stanno vivendo un tempo di crisi straordinario. Non c’è riconoscimento sociale per le lavoratrici e i lavoratori del Terzo Settore, non c’è valore per le professioni sociali, né economico né del ruolo che svolgono. E la stanchezza si fa sentire.
E poi ci siamo noi, che dobbiamo superare la frammentazione e l’autoreferenzialità tipica delle organizzazioni. Dobbiamo essere noi i primi a creare coesione e inclusione all’interno di noi stessi. Solo così potremo fare qualcosa di utile e necessario anche per gli altri.